Si intitolava Arte e politica: passato e presente, l’incontro di ieri, lunedì 31 ottobre, con Zerocalcare nel contesto di Lucca Comics & Games 2016. E il popolarissimo fumettista non si è sottratto all’argomento, parlando sia di atteggiamento personale nei confronti dell’impegno, sia di scopi e di intenti nel suo contesto professionale.

Ecco cos’è emerso dalla chiacchierata con lui in una chiesa di S. Francesco non gremita, ma decisamente più affollata di quanto facesse pensare l’argomento, non certo per tutti.

 

Kobane CallingRiuscire a fare il fumettista di mestiere è stata una mezza liberazione della mia mentalità, perché disegno fin da ragazzino, ma questa parte della mia vita l’ho sempre associata solo a emozioni positive, alla passione.

Poi, però, il lavoro, la dimensione professionale, si porta inevitabilmente dietro una serie di emozioni negative, dal senso di colpa agli impegni non declinabili. Dopo un certo periodo di dubbio atroce, ho finito con l’accettare che il fumetto fosse diventato il mio mestiere. Allora, se devo soffrire, meglio farlo facendo fumetti che lavorando in aeroporto.

Il fatto di essere utilizzato come bandiera dalle persone mi mette un po’ ansia, anche perché ho imparato a svicolare da certe situazioni, ma da altre no. Ad esempio, questa mattina vengono da me con un fumetto sulla battaglia di El Alamein e io non ho avuto problemi a dire che no, non la faccio la foto, perché diamo un giudizio diverso su questo evento in particolare. Ma quando mi contattano persone con una passione, ragazzi per cui quella cosa è centrale e che magari mi attira anche, in quei casi fatico a sfuggire e mi trovo in difficoltà, anche perché le persone non sempre capiscono i tuoi impegni, le tue pressioni e magari si offendono. Fatico a girare i tacchi e fuggire.

Non so da dove venga la mia forza per esprimermi in maniera libera. Sicuramente l’ambiente in cui sono cresciuto, quello dei centri sociali romani, mi ha aiutato moltissimo a tenere la barra dritta su un sacco di questioni. E io ci sono cresciuto come si cresce in una riserva indiana, nel senso che tutta la mia rete sociale viene quasi esclusivamente da lì. Amicizie, locali, persone che mi hanno insegnato a esprimermi e mi hanno ascoltato sono tutte di quell’ambito.

Di fronte alle offerte, alle marchette, agli stimoli che sono arrivati da tutte le parti, avere la mia riserva indiana mi ha consentito di non fare mai niente di cui vergognarmi. Sicuramente qualche cantonata l’ho presa, ma la mia comunità mi ha fatto in qualche modo da sorveglianza, nel senso buono del termine. Mi ha costretto un po’ a rimanere fedele a me stesso, a continuare a riconoscermi guardandomi allo specchio.

Sul potere dell’immagine di cambiare il mondo, la mia posizione è forse in controtendenza. Io sono una persona orribilmente cinica e concreta. Di base penso che, per esempio, Kobane Calling possa fare poco e che, al di là della retorica e delle favole, sia un granellino nel deserto. Purtroppo le cose succedono altrove, per altri canali.

Però, parlando in generale di storie che fanno politica a fumetti, tipo Joe Sacco o Paco Roca, la cosa che tentiamo di fare è generare una forte empatia con una certa questione. L’empatia è il contrario dell’indifferenza e il motivo per cui molte idee o certi argomenti passano più facilmente è che, banalmente, non è che manchi l’informazione, ma l’informazione non interessa emotivamente alla gente. Perché le cifre sono anonime, per quanto terribili e oggettivamente noiose, cose impossibili a cui appassionarsi.

Il fumetto, meglio di altre forme, perché ti permette di non riprodurre pedissequamente quel che vedi e ti costringe a rielaborare, riesce invece a far appassionare riportando non i fatti, ma le emozioni, che ti conducono a schierarti, ti portano a prendere parte. Questo non ferma le guerre, non cambia le sorti delle nazioni, ma sicuramente ha un valore. Da quel tentativo di fornire strumenti di consapevolezza, ognuno può partire, se incontra il tuo lavoro.

La mia abitudine di disegnare i cattivi in modo poco realistico viene anche un po’ dalla mia esperienza. Tra il 2001 e il 2007 noi dell’ambiente abbiamo avuto in continuazione neonazisti che venivano a far violenza da noi e si doveva perdere tempo per tamponare molto queste situazioni. Spesso ho dovuto disegnare storie e volantini, rappresentarli come anonimi era un modo per togliere loro importanza e demitizzarli, non trasformarli in personaggi veri.