Lo abbiamo apprezzato come straordinario autore grazie a I miei anni ’80 a Taiwan, e a Lucca Comics & Games 2018 abbiamo avuto la possibilità di incontrarlo e intervistarlo. Stiamo parlando di Sean Chuang, fumettista e regista pubblicitario. Ringraziamo add editore, in particolare Ilaria Benini e Enea Brigatti, per la collaborazione, nonché Martina Renata Prosperi per la traduzione.

Vi lasciamo alla bella chiacchierata con il gentile e disponibilissimo Chuang, con il quale abbiamo potuto approfondire la conoscenza del suo affascinante Paese.

 

Diamo il benvenuto a Sean Chuang su BadComics.it!
È un piacere ospitarla sul nostro portale. Vorremmo iniziare dai suoi studi. Come racconta nel libro, l’entrata all’Accademia Fushing di Taipei è stata quasi casuale, ma la passione per il disegno c’è sempre stata in lei, cosa può raccontarci a riguardo?

Grazie a voi per avermi ospitato! Ho cominciato ad amare il disegno appena ho potuto stringere una matita in mano: credo avessi quattro anni. Ho una foto scattata da mio padre in cui sono sdraiato sul pavimento a disegnare, e sono davvero piccolo. Allora in TV c’erano solo tre canali, con tante pause tra una trasmissione e l’altra. Io dovevo in qualche modo riempire quei vuoti. Il modo di impegnare quel tempo libero per me era disegnare.

Com’è nata la passione per il Fumetto? Quali opere appartengono alle letture della sua gioventù?

Principalmente leggevo fumetti giapponesi taroccati, versioni pirata. Quand’ero giovane, il fumetto taiwanese non era molto in voga, ed era pure sotto censura.

Ci sono dei maestri o delle opere che l’hanno influenzata e a cui si è ispirato nel creare il suo stile?

Sì, certamente. I miei riferimenti sono sempre giapponesi. Su tutti direi il maestro Osamu Tezuka. Sono stato poi molto influenzato da Fujiko Fujio, ovvero Hiroshi Fujimoto e Moto Abiko; adoro il loro “Doraemon”.

Veniamo a “I miei ’80 anni a Taiwan”: com’è nata l’idea di quest’opera?

Io, in realtà, ho iniziato a fare fumetti venticinque anni fa, nel 1993. Era una serie a puntate, “A Filmmaker’s Notes”, dove avevo già raccontato ricordi e momenti della mia vita, ma con un piglio più amatoriale, perché allora non pensavo al Fumetto come a una professione. Poi è venuto il mio secondo lavoro, “The Window”, la prima graphic novel taiwanese, un’opera autoconclusiva che non mi toccava personalmente. Con “I miei ’80 anni a Taiwan” ho voluto finalmente realizzare una graphic novel che riguardasse me in prima persona e avesse un taglio professionale e autoriale.

Nel libro, lei ritrae i Super Robot giapponesi con tanta precisione e affetto. La cosa curiosa, rispetto all’Italia, è che a Taiwan ve ne siete innamorati senza conoscere anime e manga, bensì attraverso giocattoli. È vero? E perché i cartoni animati erano proibiti nel suo Paese?

Sì, è assolutamente vero: a Taiwan abbiamo conosciuto i Super Robot giapponesi tramite i giocattoli. È dovuto ancora una volta alla censura. In quel periodo, i rapporti tra il Governo di Taipei e quello di Pechino non erano affatto buoni e c’era una forte censura da entrambe le parti su vari prodotti culturali appartenenti, non solo ai due Paesi contrapposti. Tra questi prodotti c’erano anche i fumetti. Quelli giapponesi arrivavano lo stesso a Taiwan, taroccati, come dicevo, ma più vicini all’opera originale, oppure legali, ma manipolati ed epurati di tutti quegli elementi ritenuti dalla censura non idonei e diseducativi.

Non c’era una regola chiara, non ho mai capito bene come funzionasse. Era a discrezione degli organi addetti del partito e delle singole persone che ne facevano parte. Per esempio, “Mickey Mouse” veniva pubblicato da noi ed era ritenuto lecito. Si trattava di un topo parlante, ma i manga con animali parlanti venivano bloccati.

I giocattoli non erano interessati da tutto ciò, perché non erano ritenuti pericolosi dal nostro Governo. Adoravamo e compravamo questi giocattoli, i robot, senza nemmeno sapere come si chiamassero e che storia avessero alle spalle.

Posso chiederle qual è il suo robot giapponese preferito?

[Ride] Il mio preferito è quello che mi regalò mio zio e che ho disegnato nel fumetto. Era l’unico che possedevo, non ne conoscevo il nome e neppure la storia, come ho spiegato prima. Ma guai a toccarmelo!

Siamo quasi coetanei e i suoi miti dell’adolescenza ho scoperto essere anche quelli della mia generazione, come Bruce Lee. Forse è ancora più vicino a lei perché cinese. Non c’è nessun super eroe che possa affiancarlo nel suo cuore, scrive.

Assolutamente sì. Per me Bruce Lee è e resterà per sempre il mio mito assoluto, perché ha un significato speciale, epocale, non solo per me ma per una generazione e un popolo. Negli anni ’80, per noi taiwanesi era colui che più ci rappresentava. Taiwan era allora solo una piccola isola in mezzo a super potenze e nazioni straniere prepotenti. Bruce Lee era il nostro vendicatore che sconfiggeva tutto e tutti e vinceva sempre.

Quando andavamo al cinema a vedere le sue pellicole, noi non assistevamo semplicemente al film proiettato: combattevamo con lui! Era il mio mito negli anni ’80 e lo è ancora adesso, anche perché era un vero maestro di arti marziali e fu il primo a lottare e a girare scene spettacolari senza controfigure. È il mio eroe.

Lei, che è anche un regista pubblicitario, nella graphic novel ironizza sulle pellicole 3D. Qual è la sua opinione da addetto ai lavori al riguardo su questo tema e sull’esasperazione degli effetti speciali al cinema?

[Ride] Non scherzo affatto nel libro: ci si stanca davvero a guardare un film in 3D, e la storia che segui è la stessa di una pellicola normale, non offre niente di più al racconto. Voglio dire, è solo una questione di effetti grafici, non di contenuto. Invece, il 3D richiede uno sforzo visivo notevole. Al termine della proiezione, gli occhi ne risentono, a differenza di un film in 2D. Inoltre, ritengo che non di rado ci focalizziamo troppo sulla tecnologia e sugli effetti speciali a discapito del soggetto del film e della qualità della storia.

Sempre nel fumetto, con la sua ironia e leggerezza, rende al meglio la spensieratezza di quei giorni. Ci sono momenti davvero divertenti, come l’amica di penna o il taglio dei capelli. E poi, c’è il suo ricordo più bello di quegli anni, un ballo di breakdance in strada. È davvero questo il ricordo a cui è più legato in assoluto dei suoi anni ’80?

Sì, ne sono sicuro. La breakdance fu il simbolo della nostra liberazione, in quegli anni. Coincise con la fine della censura, dei controlli e della legge marziale. Prima era proibito ballare: se la polizia ti trovava a ballare in pubblico, venivi immediatamente fermato, come racconto nel libro. La fine della legge marziale ci liberò da tutto ciò. In quel periodo, poi, mi trasferii a Taipei, dove potevo sfogarmi e danzare per strada, assaporare pienamente la libertà e racimolare pure qualche spicciolo.

Quali sono, invece, i tempi duri a cui lei accenna alla fine del capitolo sulla breakdance?

Alludo alla pressione degli studi e degli esami da sostenere per accedere all’università. A Taiwan sono molti i test di selezione, e sono assai severi. Per noi dell’Accademia delle Belle Arti era ancora più dura rispetto agli studenti provenienti dai licei. Bisognava studiare e prepararsi anche per tre anni, prima di riuscire a entrare in una buona università. Anche a casa la pressione e le aspettative erano alte, per cui erano davvero tempi duri. Ma è il passato: adesso a Taiwan ci sono fin troppe università e oggi bisogna pregare i ragazzi affinché ci vadano! [Ride]

Quanto sanno i taiwanesi di oggi, soprattutto i giovani, della rivoluzione comunista e della guerra civile? È un argomento di discussione ancora vivo?

Oggi a Taiwan i giovani hanno una visione molto semplificata di quegli avvenimenti e talvolta non si preoccupano nemmeno di approfondire le loro conoscenze. Devo aggiungere che il sentimento comune e più diffuso tra noi taiwanesi è una sensazione quasi di pericolo. Ci sentiamo costantemente osservati dal gigantesco vicino di casa [la Repubblica Popolare Cinese – NdR], non solo per le nostre scelte e le nostre azioni in patria ma anche all’estero. Quando sei in un altro Paese, non puoi non fare a meno di avere un occhio di riguardo e stare attento a quello che dici, se c’è un “cugino” cinese in platea, nonostante i rapporti siano in continuo cambiamento.

Come sono i rapporti tra il governo di Taipei e quello di Pechino?

I rapporti tra i due governi, almeno a livello formale, sono distesi e pacifici. Noi taiwanesi ci rechiamo tranquillamente in Cina continentale e viceversa. Apriamo imprese in Cina. Tuttavia, all’interno, ognuno dei due Paesi ha sensazioni differenti. Non sono pochi i taiwanesi che sono ostili alla Madre Patria e così pure il contrario. Ma, tutto sommato, oggi i rapporti diplomatici sono buoni, anche se mai del tutto stabili.

“I miei anni ’80 a Taiwan” si chiude con un messaggio bellissimo, la sua definizione di libertà: imparare ad affrontare i problemi e provare sulla nostra pelle le gioie e i dolori che ne derivano. Esprime una grande serenità d’animo: la mantiene tuttora?

Sì. La libertà non è fare ciò che si vuole, ma saper decidere cosa si vuole fare.

Veniamo a oggi. Sta lavorando a qualcosa in particolare in questo momento? Pubblicità o fumetti?

In campo pubblicitario sono un freelance, per cui lavoro su commessione. La pubblicità tradizionale è un campo in calo in Taiwan, mentre quella online sta crescendo. È lì che sto rivolgendo il mio interesse.

Per ciò che riguarda i manhua, invece, continuo a dedicarmici a tempo pieno. L’ultimo mio lavoro, uscito di recente a luglio, si intitola “老爸练习曲 – Études for papa” [“Studi per papà” – NdR]. Riguarda la relazione tra me e mio figlio e quella tra me e mio padre. È una graphic novel incentrata sue due generazioni di figli e ha come sfondo la paternità.

Un fumetto da consigliare ai lettori di BadComics.it?

Ne avrei un sacco, me ne piacciono tantissimi. Più che opere, potrei consigliarvi degli autori: sicuramente Jiro Taniguchi, Moebius e Nicolas de Crécy.

 

Sean Chuang