Il New York Times si interessa al mondo del Fumetto chiedendo a due autori afroamericani, scrittori di storie di super eroi neri, di condividere la loro visione del momento, della politica, della cultura e dell’atmosfera sociale americana dalla prospettiva del tutto particolare di professionisti della narrazione impegnati nel mondo dei comics. Rispondono alla chiamata Eve L. Ewing, autrice di Ironheart ed Evan Narcisse sceneggiatore di Rise of the Black Panther.

 

 

I due hanno risposto con due articoli molto personali. Eccovi il primo, scritto dalla sceneggiatrice di Ironheart, serie dedicata alle avventure di Riri Williams.

 

Eve L. Ewing – Le mie notifiche di Twitter erano una discarica in fiamme. La gente diceva che non avevo talento e che ero la portatrice di tutto ciò che non andava nell’industria dei comics. Alcuni hanno usato delle parole in codice come “diversità forzata”. Altri messaggi, come le semplici immagini di una croce in fiamme, erano più diretti.

Ironheart #1, copertina di Amy Reeder

Era il dicembre del 2017 e ogni cosa era una guerra culturale. Il mondo dei comics non faceva eccezione. Il movimento Comicsgate era emerso all’inizio del 2016: una varia conglomerazione di hashtag, canali YouTube e profili Twitter che si divertiva a tormentare donne, persone trans e persone di colore. Il che includeva persone reali, come me, e personaggi, come quelli che scrivo: tra cui una ragazzina nera di Chicago di nome Riri Williams, entrata nel mondo dei super eroi Marvel con il nome di Ironheart.

Da donna nera con una stabile presenza pubblica sul web, ero abituata alle molestie e avevo sviluppato una serie di testate strategie: bloccare, sospendere, ignorare e occuparmi di tutt’altro nel corso delle giornate. Ma c’era qualcosa di fondamentale che non avevo ancora capito e che mi avrebbe poi tormentato. Di tutte le cose che avevo detto e fatto in pubblico, di tutte le mie opinioni su società, politica, media ed educazione, nulla aveva attratto la polemica come la semplice voce che avrei potuto scrivere la serie di Ironheart.

Scrivere per la Marvel mi era parso l’impegno politicamente meno impegnativo della mia vita. Una cosa divertente. Era una specie di miracolo giovanilista, una nuova bicicletta fiammante con dentro una scorta illimitata di gettoni per la sala giochi. Mi preoccupava soprattutto riuscire a scrivere qualcosa di decente. Riri aveva una storia delle origini fornita dallo scrittore Brian Michael Bendis e dal disegnatore Mike Deodato. Era un’adolescente geniale che aveva perso tragicamente la propria famiglia e che ora frequentava l’M.I.T.

Ironheart 01

Per me, il mio lavoro era cercare di capire gli elementi più profondi della sua identità sotto l’armatura. Quali paure e quali desideri la motivano? Quali sono le sue idiosincrasie e i suoi difetti? Chi sono le persone che le stanno vicino e le vogliono bene? Sapevo di dover comprendere il modo in cui Riri vedeva il mondo, da persona cresciuta in una comunità iper-controllata dalla polizia, di dover capire quali persone lei considerasse dei criminali.

La pagina che trovate qui a fianco è il mio remix della classica posa d’atterraggio da super eroe: Riri passa da quella posizione super aggressiva, con il pugno piantato a terra, a una molto più empatica e gentile, appoggiando il ginocchio per parlare con un ragazzino.

Il segreto non troppo nascosto delle storie di super eroi è che i lettori vogliono capire chi siano i personaggi quando non sono in costume. Una volta capita questa cosa, puoi gettarti nelle titaniche battaglie per salvare il futuro dell’universo. E per me questo è divertentissimo. Non fraintendetemi: sapevo che quel che stavo facendo era qualcosa di storico. All’epoca, ero solo la quinta donna nera che scriveva qualcosa per la Marvel in ottant’anni. Eppure, non mi spiegavo perché io e Riri fossimo così divisive per la gente.

Ci ho riflettuto ad alta voce assieme a Ta-Nehisi Coates, anche lui preso di mira per aver scritto Captain America. “Se scrivi queste storie” mi disse, “dovrai affrontare più razzismo e sessismo di quanto non ti sia mai capitato nella vita. E contemporaneamente, ti divertirai più di quanto abbia mai fatto come scrittrice.”

Gli dissi che ero entusiasta della parte del divertimento ma mi confondevano le ragioni del razzismo e del sessismo. Perché la gente era così arrabbiata? Mi disse: “No, Eve. Non capisci? Hanno ragione. Hanno ragione su di te, su di noi, su questi personaggi. Noi siamo effettivamente una minaccia per loro.

In quel momento, divenni di nuovo una bambina, che cammina verso casa, dalla stazione ferroviaria, di sera, molto prima che esistessero le applicazioni di tracciamento gps, prima che le ragazze nere si prendessero le strade e diventassero virali sul web. Se scomparivi, eri persa per sempre. In quei momenti, pensavo sempre a una persona: Batman. Nella mia testa, era semplicemente fuori dalla mia vita, accucciato sul tetto di una chiesa buia. Quali potevo vedere un lembo del suo mantello scomparire dietro un angolo, ma pensavo di aver girato la testa troppo tardi. Quando ero spaventata e sola, la mia mente correva a lui.

I super eroi riflettono la mitologia condivisa della nostra cultura: quel che significa essere buon, coraggiosi, affrontare l’inaffrontabile. Negli anni recenti abbiamo preso coscienza di quanto sia importante la rappresentatività, quanto sia vitale che i bambini abbiano l’occasione di vedere le proprie possibilità raccontate dai media.

Ma i super eroi hanno un significato ancora ulteriore. Non è soltanto che se delle ragazzine nere leggono di quanto Ironheart sia coraggiosa, allora capiscono di poter fare altrettanto, perché le assomigliano. Il punto è che i super eroi hanno il ruolo di specchio della cultura condivisa, sono vessilli di ciò che il coraggio è per tutti.

 

Ironheart 02

 

In una delle mie tavole preferite di Ironheart, volevo mostrare la gioia pura dei ragazzini neri di Chicago nell’incontrare Riri e nel volare con lei per la prima volta. Per me è importante reagire alla rappresentazione troppo matura dei bambini neri, mostrarli nell’atto di essere spensierati, di divertirsi. Il momento di cui parlo è anche la chiusura di un cerchio, perché nella storia Ironheart cattura un ragazzino al verde che commette un crimine da poco, ma invece di punirlo ha intenzione di aiutarlo.

Se i bambini sono spaventati e soli, nel loro cuore chiedono protezione e il volto che vedono nella loro mente è quello di una ragazzina nera del sud di Chicago, o di una pakistana-americana musulmana di Jersey City, o di un adolescente clandestino messicano-americano dell’Arizona e dotato di ali… se quei volti diventano simboli culturali degli ideali cui tende la nostra società, come lo sono Superman, Batman e Capitan America da generazioni… cavoli, se fossi un suprematista bianco sarei arrabbiato eccome.

Sul mio telefono, tengo sempre una cartella di immagini. Contiene screenshot da Twitter e Instagram, ma non dei messaggi che mi insultano con parole irripetibili. Tengo le foto dei ragazzini vestiti come Riri, bambini da tutto il paese i cui genitori hanno postato immagini di loro che leggono i fumetti scritti da me e mi hanno taggato online. Di ragazzi che sono venuti alle convention di fumetti e agli incontri.

Tengo con me le foto delle file che si sono formate fuori dalla porta del negozio e nelle strade la prima volta che ho tenuto un firmacopie nella fumetteria del mio quartiere, la First Aid Comics. Ho salvato le foto della prima volta che sono stata al New York Comic Con e ho posato con un gruppo di fumettisti neri, con grandi sorrisi sotto i nostri occhiali spessi. Mi tengo le foto di quando ho posato con un’Ironheart in stampelle, con i più piccoli Pantera Nera di sempre, con una Ms. Marvel seduta sulle mie ginocchia.

Certo che ci sono ancora un sacco di persone arrabbiate pensando al futuro dei comics, ma la cosa non mi infastidisce. Sono nel più grande team di super eroi di sempre. E, come forse avrete sentito dire, siamo fortissimi.

 

 

Fonte: New York Times