Oltre a essere un grande artista internazionale, Carmine Di Giandomenico è innanzitutto una persona squisita con cui avere a che fare. Durante Napoli Comicon 2018 abbiamo avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere con lui durante una pausa tra una sessione di sketch e l’altra, parlando del passato prossimo, del presente e dell’immediato futuro della sua vita professionale.

 

Ciao, Carmine! Bentornato su BadComics.it.
Recentemente si è chiusa la tua esperienza sulla serie di Flash, che ti ha visto impegnato come disegnatore regolare sin dagli albori del rilancio targato Rinascita su sceneggiature di Joshua Williamson: cosa puoi raccontarci di questa esperienza?

Con “Flash” mi sono divertito molto, perché Joshua mi ha lasciato molto spazio ed è stata una bellissima collaborazione. Ci sentivamo quasi ogni giorno tramite mail, e in più è stata una bella sfida: essendo un quindicinale era necessario correre insieme a Flash. Mi è stata data la possibilità di creare nuovi character design, come quello di Godspeed e di alcuni comprimari apparsi per un paio di numeri. In particolare, ho reinterpretato Grodd, nell’ultimo numero: molto più selvaggio e più vicino a un gorilla, non troppo caricato di armature tecnologiche. In più ho realizzato anche il design di un nuovo cattivo, di cui non posso dire il nome per non fare spoiler.

Quando ti danno questa possibilità di spaziare per creare i personaggi, li immagino come fossero dei modellini o dei giocattoli. Spero ci facciano una statuetta, quindi ragiono con questo concetto in mente. Poi, se la realizzeranno o meno non fa nulla, ma intanto lavoro seguendo quell’idea. Mi porta a fare attenzione a determinati elementi, come le giunture articolari, per renderli non solo credibili e fattibili, ma anche fighi! Sennò poi il personaggio non lo vendi, perché non piacerebbe al pubblico e al lettore. Adesso, invece, sono in pausa.

Pausa dai super eroi, ma in realtà hai appena presentato con ManFont un lavoro in uscita nel 2019, realizzato a quattro mani con Francesco Colafella.

Sì, una graphic novel per l’Italia che richiederà un anno o un anno e mezzo di lavorazione. Si tratterà di centoventi tavole realizzate insieme a Francesco Colafella. Ho sentito l’esigenza, già vissuta con “Oudeis”, di raccontare una storia. In questo caso è a quattro mani, perché si tratta di una storia personale di Francesco, che me l’ha raccontata in prima persona. Mi son fatto trasportare dalle sue suggestioni. Sarà basata su scene che raccontano sentimenti: volevo staccare dalla dinamicità supereroistica per raccontare qualcosa di più “lento”, anche se poi ci sarà comunque un risvolto molto dinamico.

Il personaggio protagonista è Leone, e si tratta della storia del bisnonno di Francesco. Abbiamo selezionato diversi momenti, tra cui la sua passione per il Jazz, e il suo fare spola tra Italia e Stati Uniti per mantenere la famiglia. Stiamo parlando degli anni tra fine ‘800 e la Seconda Guerra Mondiale, quasi un secolo di vita. Abbiamo trovato un tipo di narrazione particolare, diversa, che poi… vedrete!

Hai fatto accenno a “Oudeis”, una storia che hai iniziato a raccontare agli inizi degli anni 2000, concludendo i disegni del terzo capitolo nel 2016 in occasione del Guinness World Record raggiunto a Teramo Heroes.

“Oudeis” ha avuto inizio “nel cassetto”, durante il 1997. Poi saldaPress ha voluto pubblicarlo facendo uscire il primo volume nel 2004 e il secondo nel 2006 (nel frattempo, stavo realizzando “La Dottrina”). Oltretutto, tu sei stato uno dei partecipanti che ha assistito alla follia di realizzare l’ultimo capitolo in quarantadue ore su pannelli 70 x 100 cm, un’impresa compiuta sotto le peggiori intemperie possibili.

Tutti e tre i volumi verranno raccolti probabilmente per la prossima Lucca Comics & Games. Purtroppo è slittata l’uscita a Napoli Comicon per colpa mia, ma tra “Flash” e altri impegni che si chiamano “vita” ho avuto un po’ di problemi: mi sono infortunato allo sterno e la scorsa estate ho dovuto fermarmi. È stata dura, ma alla fine uscirà: ho appena consegnato i dialoghi e questo volume includerà, oltre al finale, i due episodi già editi.

Il terzo capitolo è molto intimista, come i primi due, e racconta, come il finale dell’Odissea, il ritorno a casa di Ulisse. Se vogliamo prendere in considerazione la storia tramandata da Omero, che racconta di lui che torna a Itaca per poi restarci, va detto che “Oudeis” non sarà proprio così. Dante parla di un altro approccio, quindi non si sa se resterà lì o meno. Diciamo che l’ultimo volume sarà anche un’omaggio all’Ulisse di James Joyce. 

Osservarti all’opera a Teramo è stata un’esperienza unica. Hai realizzato quelle tavole utilizzando qualsiasi strumento possibile, partendo da quelli che sono idealmente più lontani dal disegno e finendo con le tue stesse mani. Quanto rientra la componente fisica nella realizzazione di un disegno?

Rientra in maniera viscerale. È un’esigenza, non si tratta di voler fare una performance, uno spettacolo, ma proprio un’esigenza fisica di contatto con la materia, per riuscire ad avvicinarsi a quello che si ha in testa utilizzando qualsiasi cosa a disposizione. Questo me l’ha insegnato un mio professore del liceo artistico, Borgognoni, che diceva: non è importante la qualità del materiale o dello strumento, l’importante è l’idea che hai e le mani che utilizzi. Per questo, quando disegno cerco veramente di vivere l’atto.

Ovviamente con il mercato americano questo fattore viene meno. Lavorando con la Cintiq, la metodologia diventa quasi meccanica. Però, quando posso, riesco a spaziare: ultimamente ho sperimentato anche il cioccolato, mentre durante il liceo artistico iniziai con il nastro adesivo e con l’olio (inteso come olio d’oliva su carta da pacchi). Ho sempre cercato di fare cose particolari, espressive, anche se sarebbero durate trenta secondi. Mi piace mettermi in gioco anche in modo estemporaneo.

Quest’estate, durante il festival dedicato a John Fante a Torricella Peligna, ho disegnato solo con i piedi, immergendoli fisicamente in una tempera blu, perché avevo lo sterno infortunato. Penso che il corpo tutto, quando hai voglia di esprimerti artisticamente, possa interagire. Chi fa questo lavoro lo fa perché vuole raccontarsi e raccontare, come fosse un’esigenza fisica, e il fisico è una parte importante che va utilizzata per comunicare, come per le mani per i non udenti, ad esempio. 

Talvolta, le nuove leve hanno paura di mettersi in gioco, molto spesso per paura di affacciarsi sul mondo. Che consiglio daresti loro?

Tornate a sei anni, con il “gioco del perché”. Fatelo con il personaggio che state creando e con voi stessi: perché ho fatto questa cosa? Perché ho scritto quest’altra? Chi sono io? E giocate a cercare le risposte, crescendo e facendo crescere il vostro personaggio.

A Teramo il messaggio non era fare un Guinness ed essere il disegnatore più veloce del mondo, perché non conta niente quel titolo, non rappresenta nemmeno un milionesimo dell’emozione che ti dà fare questo lavoro. Il concetto era che se credete veramente in qualcosa che volete realizzare, in quello che volete raccontare o, per i giovani di oggi che hanno spesso paura di questo settore e di mettersi in gioco, vi dovete buttare. Fate qualsiasi cosa, davvero. Fate in modo che sia il primo passo, con tutti gli errori possibili, perché comunque sia gli errori fanno parte dell’essere umani. Bisogna buttarsi e fare, senza paura.

C’è qualche desiderio legato al mondo del Fumetto che vorresti realizzare, prima o poi?

Riuscire a fare un progetto per Superman simile a “Battlin’ Jack Murdock”: difficilissimo se non impossibile. Esperimenti particolari? Vorrei provare a disegnare a testa in giù. Sono un po’ matto! Mi accreditano come “il pazzo del settore”, ma in realtà mi piace giocare, divertirmi e non prendermi troppo sul serio. Non solo è un settore che fa parte dell’intrattenimento, ma anche il disegnatore stesso ne fa parte. Ma, a quel punto, invece di farmi commissionare come intrattenere, decido io come farlo.

 

Carmine Di Giandomenico