Zerocalcare si trova al momento in Iraq, assieme al regista di documentari Manolo Luppichini e all’infermiera scrittrice Chiafra Cruciani, per documentare quanto sta avvenendo nella regione del Shengal. Qui, le famiglie ezide hanno fatto un vero e proprio esodo per trasferirsi in una regione piena di rovine, così da lasciarsi alle spalle la ferocia dello Stato islamico e costruire un modello di società condivisa, ecologica e matriarcale, con la speranza di ottenere un riconoscimento ufficiale.

 

 

Non sappiamo ancora come si concretizzerà il reportage del fumettista, se in una storia breve come quelle apparse negli scorsi anni sulle pagine di Internazionale, o se un lavoro più complesso com’è stato Kobane Calling. L’autore di Rebibbia ha annunciato così sui social la sua trasferta:

 

Zerocalcare – Per la precisione stamo a Shengal, nella regione che la comunità Ezida sta autogovernando dopo il genocidio dell’Isis del 2014 e la successiva riconquista di quei territori, ripresi da loro stessi insieme ai curdi dello Ypg e Ypj, e che ora rischia di concludersi nel sangue dopo l’accordo che tra governo centrale dell’Iraq e Kurdistan Iracheno, con le pressioni della Turchia, per porre fine a quest’esperienza.

Durante un collegamento di ieri notte con TG3 Mondo, l’autore ha raccontato com’è la situazione in Iraq:

 

Zerocalcare – Non sono venuto qui da solo come un matto, ma all’interno di un progetto più articolato che vuole documentare quello che sta succedendo lì. Arrivare a Shinjar (il nome con cui qui chiamano il Shengal) è estremamente complicato, perché l’Iraq ormai è un Paese balcanizzato in tanti piccoli feudi; nonostante il visto fosse quello regolare dell’ambasciata poi, a seconda delle regioni e dei territori che uno attraversa, le fazioni lo riconoscono o meno e pretendono un altro tipo di pezzo di carta. Tutti sono d’accordo sul tenere le persone il più lontane possibile da Shengal, per evitare di puntare troppo l’attenzione su quello che sta succedendo lì.

Noi abbiamo attraversato l’Iraq vedendo davvero poche donne in giro. Abbiamo attraversato intere città senza vedere una sola donna, oppure vedendola accompagnata dal marito. Arrivati a Shengal il colpo d’occhio è diverso, c’è una grande libertà. Uno dei pilastri di questa autonomia è l’autodifesa, fatta anche da una forza femminile che ha il compito di proteggere le donne. Situazioni come questa lo rendono evidentemente un esperimento politico e sociale diversissimo da quello che c’è in quell’area, inviso da chi gli sta intorno.

Nella prima metà di quest’anno ci sono stati dei bombardamenti e dei droni turchi, mentre da aprile – quando in teoria scadeva l’ultimatum e l’esercito iracheno avrebbe dovuto avanzare di nuovo – ci sono stati dei tentativi di avanzamento che sono stati respinti, c’è una situazione di stallo.

I curdi hanno un detto: “I curdi hanno un solo amico e sono le montagne”, perché sanno bene che le alleanze strategiche si possono sciogliere come neve al sole nel momento in cui cambiano gli interessi. Nessuno si fa mai delle illusioni, loro pensano sempre di relazionarsi con i popoli più che con gli Stati. Però è un dato che sia successo qualcosa di molto vicino a un tradimento.

Gli Yazidi mi hanno levato di dosso degli stereotipi. Quando mi hanno iniziato a raccontare quello che stavano facendo in questi territori, ho pensato fosse qualcosa per noi molto lontano, da vedere attraverso delle lenti con la fascinazione dell’esotico. Mentre con i miei occhi ho imparato che queste cose sono vere, è qualcosa che si può toccare con mano. Effettivamente anche in zone che per migliaia di anni hanno conosciuto solo autoritarismo, totalitarismo e feudalesimo si possono sviluppare degli esperimenti di democrazia molto più avanzati di quelli conosciuti in Occidente.