C’erano nomi roboanti e importanti a Lucca Comics & Games 2019, per quanto riguarda l’importanza degli ospiti presenti. Uno dei talenti più cristallini che potevate incontrare e che abbiamo avuto modo di intervistare è italiano, stava allo stand BAO Publishing e risponde al nome di Matteo Scalera, l’artista di Black Science.

 

 

Fresco di pubblicazione in Italia dell’ultimo volume dell’opera Image Comics che ha firmato assieme allo sceneggiatore Rick Remender e che, secondo noi, lo consacra come una delle matite più ammirevoli del panorama internazionale – nel senso che le sue tavole esigono giustamente lunghi minuti di osservazione – Scalera ha risposto a un po’ di domande sulla serie da poco terminata e sul proseguire della sua carriera, raccontandoci i propri gusti, le proprie speranze e anche le strategie che ha intenzione di mettere in campo per mettere a frutto al meglio possibile la propria esperienza.

Ringraziando, mai abbastanza, lo staff di BAO per la gentilezza e disponibilità, vi lasciamo alle risposte di Scalera.

 

Ciao, Matteo! Bentornato su BadTaste.it.
Credo che “Black Science” sia uno dei fumetti – delle storie, in realtà – più appassionanti degli ultimi cinque anni. Ho avuto modo di dirlo nella recensione che ho scritto. Tu e Rick Remender, per me, avete dato vita a un’opera importante, che saprà restare nel cuore degli appassionati a lungo. Ora che è finita, e che questa edizione di Lucca Comics & Games ne ospita il finale, che bilancio fai della serie e dell’esperienza?

Mi ha dato tantissimo e mi ha fatto imparare molte cose. Prima di tutto, mi ha dato modo di conoscere meglio l’industria del Fumetto. Lavorando con Image Comics, gli autori sono i proprietari del progetto e l’editore è lo strumento che ti consente di pubblicarlo, che provvede alle spese di pubblicità, stampa e distribuzione, inoltre un editor ci ha aiutati a gestire le scadenze. Image invia puntualmente un report, che mostra l’andamento della serie. È un meccanismo interessante, perché si conosce nel dettaglio la composizione del mercato, del pubblico, le percentuali di introito dal digitale, dal cartaceo, il numero di copie. Nell’andamento di una serie così lunga, ti consente di capire davvero molte dinamiche.

Super organizzati, alla Image.

Davvero tutto perfetto. E poi, questa modalità mi ha consentito di capire la differenza tra il lavorare su una property altrui e una mia.

Cioè essere responsabile dalla A alla Z?

Sì, ma anche scegliere in modo indipendente quale sarà la parabola di un personaggio dall’inizio. Se morirà oppure se sopravvivrà e per quanto; se si presenterà come un buono e poi si svelerà essere un cattivo. Sono tutte cose che mi aiutano tantissimo nel lavoro, per dare ai personaggi sfumature diverse.

Questo mi ha permesso di essere pieno di passione, anche dopo sei anni. Mentre quando si disegnano serie che hanno già uno storico, sai che il tuo impegno sarà limitato nel tempo. “Black Science” mi ha sempre mantenuto motivato, cambiando continuamente il mondo, le situazioni o il look dei personaggi. Non mi sono stancato.

E dopo aver mantenuto tutte queste responsabilità, oltre che la passione, per tanto tempo, hai voglia di rilassarti con qualcosa per una major o simile?

Ho già realizzato la miniserie di “Space Bandits” con Mark Millar, che è pubblicata da Image, ma è prodotta da Netflix ed è di sua proprietà. Di fatto, è stato un po’ come lavorare per una major. Voglio rimanere ancora in ambito Image: quando in America una realtà va bene, tutti cercano di collaborarci, e noi siamo stati fortunati a entrare nel momento giusto con “Black Science”.

Il tuo è stato un grosso impegno, e parlando del contenuto artistico di “Black Science” ci sono un paio di elementi che lo hanno reso un lavoro pesante. Primo, il fatto che a ogni volume ci sia un cambio di genere narrativo, passando da fantascienza a fantasy, a supereroistico, a intimista… Secondo, il fatto che cambiando mondo cambia anche l’immaginario visivo. Se il primo elemento era in mano a Remender, il secondo è stato in mano tua.

È stato molto divertente lavorare per ogni albo su un genere di fumetto diverso.

All’inizio, quando Rick immaginava una nuova ambientazione, mi inviava delle cartelle colossali di riferimenti. Trovava pagine, tavole, immagini legate da un concetto che di volta in volta era diverso. Se vedeva un film che lo colpiva, mi inondava di materiale da cui dovevo cogliere l’idea visiva che aveva in mente. Pur con un filo logico, era una varietà incredibile.

Ma, a dire il vero, mi diverto di più con i personaggi, che con le ambientazioni. Forse è inusuale, perché vedo altri miei colleghi che, invece, preferiscono creare mondi interi.

Questo mi colpisce, perché all’interno della varietà narrativa che è alla base di “Black Science” hai mantenuto uno stile molto preciso. Non ti sei adattato in modo totale a ogni genere narrativo. Qual è stata la scelta? Ancorarti un po’ alla tua personalità di artista per fare da perno, da elemento di costanza dentro un materiale narrativo che cambiava pelle molto spesso?

Direi di sì. Per ogni storia che racconto cerco una cifra stilistica precisa. In una serie come questa, che ha bisogno di continuità, mi sono affidato agli strumenti che ho costruito in dodici anni di lavoro. Quando si lavora su una serie lunga, in parte si limita la sperimentazione, anche per salvaguardare la salute mentale dei lettori.

È chiaro che, come tutti gli artisti, faccio anche qualche cambiamento. Ad esempio, in questi giorni di fiera capita di stare per ore accanto a un collega e di vedere i suoi bellissimi disegni. Prendo spunto, cerco nella tua gestualità un modo per imitare alcune soluzioni, un certo tratto. Non nego che mi piacerebbe, in futuro, lavorare su qualcosa di diverso, soltanto per divertirmi con il disegno!

Ti vedremo lavorare di nuovo con Rick Remender nei prossimi anni, dato che in altre occasioni mi hai detto che avete proprio formato un sodalizio molto forte?

Insieme lavoriamo benissimo! Come tutte le relazioni lunghe, è stata bella e impegnativa. Ora abbiamo bisogno di staccare un po’, ma con la consapevolezza che lavoreremo ancora insieme. Per il momento ci prendiamo una pausa: mi piace lavorare in team diversi e vale lo stesso per Rick.

Eccoci qua, dove volevo arrivare. Mi fai qualche nome?

Ti confesso che Mark Millar era tra le mie aspirazioni, e mi sono trovato benissimo.

Un altro autore innamorato dei disegnatori.

Sì, decisamente! Valorizza moltissimo l’artista come ruolo e come resa sulla pagina. Ed è stato gentilissimo con me. Un’ottima esperienza, anche se breve, perché è durata cinque mesi. Poi, mi piacerebbe molto lavorare con Robert Kirkman. Il suo fumetto che amo di più è “Destroyer”, mi piacciono le storie con personaggi disfunzionali. C’é un eroe violentissimo, che ti colpisce al cuore.

E più disfunzionale di Grant McKay, il protagonista di “Black Science”…

Eh già…

Kirkman qui a Lucca ha messo le tende per due anni di fila. Magari negli anni scorsi ne avete parlato davanti a una birra?

Siamo in contatto, perché qualche tempo fa ho lavorato con l’editore Skybound. Quando ci vediamo scambiamo sempre due chiacchiere. Continuando l’elenco degli sceneggiatori con cui mi piacerebbe lavorare, un altro che vorrei avere come collega è senz’altro Jeff Lemire.

E qui in Italia non ti vedremo al lavoro?
Non credo. Il mio mondo professionale, ormai, è quello degli Stati Uniti.

 

Matteo Scalera Claudio