In attesa dell’uscita di Kobane Calling oggi, abbiamo avuto l’occasione, per la gentilezza della squadra di BAO Publishing che vogliamo ringraziare, di fare quattro chiacchiere con Michele Rech, in arte Zerocalcare.

 

 

Il fumettista di Rebibbia ci ha parlato un po’ di sé, dello stato del suo fumetto in generale, del momento presente e di qualche spiraglio di quello prossimo futuro. E di un po’ del mondo che gira attorno a tutti noi, argomento principe delle sue storie.

 

Grazie mille del tuo tempo, Zero, e bentornato su BadTaste.it.
Nella vita io faccio l’insegnante di liceo, e ieri ho detto ai miei studenti che ti avrei incontrato. Alcuni di loro, di sedici e quindici anni, si sono illuminati a sentire il tuo nome. Da un lato lo trovo sorprendente: io e te siamo figli dei primi anni Ottanta e il tuo linguaggio parla a quelli della nostra età in maniera molto evidente. A loro, forse un po’ meno. Ti sei mai chiesto com’è che arrivi anche agli adolescenti di oggi anche se non hanno mai visto – la maggior parte, almeno – Shu accecarsi per salvare la vita di Kenshiro?

zerocalcare

Zerocalcare – Sì. Soprattutto durante le presentazioni, perché mi sono accorto che viene sempre la gente della stessa età. Nel senso che probabilmente le persone che possono permettersi di stare cinque ore in fila per una cosa del genere sono sempre i venticinquenni, ma non sono più gli stessi venticinquenni di quando io di anni ne avevo ventotto. Quelli di oggi hanno dieci anni meno di me, quindi mi chiedo spesso se capiscano le cose che dico. Senza contare che, come dicevi, ce ne sono anche di molto più piccoli, fino ai dodici, tredici anni, in mezzo ad alcuni che arrivano magari a sessanta.

La risposta che mi sono dato è che tutte le mie citazioni sono un di più che la generazione nostra capisce, che riconosce, che fa ridere, ma quel che probabilmente è il minimo comun denominatore anagrafico è il fatto di raccontare un certo tipo di debolezza, fragilità, paranoia… che se uno c’è l’ha dentro, se la porta e se la sente dal primo giorno dell’asilo. Se senti quell’inadeguatezza verso i compagni di scuola, te la porti appresso tutta la vita e la declini a seconda del contesto man mano che passano gli anni. Difficile che ti liberi da quella cosa. Questo è quel che davvero unisce chi si legge le cose mie, non il fatto di essere cresciuto con certi cartoni animati e certi miti: farsi quelle pippe mentali là ci fa riconoscere.

Le pippe mentali come traccia fondamentale di riconoscimento e le pizze in faccia come qualcosa da imparare a scuola, come suggerisci.

Zerocalcare – Sì. Sia quelle metaforiche che quelle vere. E da imparare a prendere e a dare. Perché le pizze in faccia sono qualcosa che ti consente di empatizzare con il prossimo. Sicuro prenderle ti insegna a regolarti, a capire quali siano le cose che si possono dire e fare, ma è fondamentale anche darle.

Nel nostro Paese in particolare, ma dappertutto, la posizione della vittima è sempre molto comoda perché è incontestabile, in qualche modo, però anche rendersi conto che si può essere carnefici, che consapevolmente o inavvertitamente possiamo rischiare di far male agli altri, è qualcosa che fa fare i conti con la propria coscienza, con il proprio modo di stare al mondo. Da qui le pizze in faccia, che ti fanno prendere coscienza del mondo.

Dopo “Macerie prime” sei tornato editorialmente al tuo fumetto episodico con, appunto, “La scuola di pizze in faccia del professor Calcare”. Queste due anime, quella da storie di più ampio respiro e quella narrativamente più breve, continueranno ad alternarsi in maniera organica come hanno fatto sinora o dopo più di dieci anni di carriera senti che ce n’è una che ti tira per la manica, in qualche modo?

Zerocalcare – No, in realtà a me l’idea di lavorare su storie brevi è qualcosa che va tantissimo. Sono al lavoro su una cosa lunga per l’autunno 2020, sempre per BAO, ma nei momenti liberi è sempre presente l’idea di riprendere le cose brevi da mettere sul blog e sui social. Ancora mi serve come momento di espressione spontanea.

Si tratta di un mezzo espressivo in cui è davvero nata la tua chiave narrativa, dove è nata la figura più immediata di Zerocalcare. Ancora oggi ti senti più te stesso in questa sede, che poi dà vita a raccolte come “La scuola di pizze in faccia del professor Calcare”? Il fatto di dover raccontare una storia lunga è forse anche una fatica, oltre che una cosa bella da fare?

La scuola di pizze in faccia del professor Calcare, copertina di Zerocalcare

Zerocalcare – Nella mia esistenza, io ho sempre avuto un problema, che è la costanza. Un libro è un lavoro lungo, che fai da solo e senza troppi feedback. A volte hai l’editor che legge qualche pagina e ti fa sapere, ma finisce lì. Mentre un episodio breve è qualcosa che metti online e causa subito una reazione, un commento, e ti dà l’impressione di essere immediatamente vitale. Un libro richiede una concentrazione tutta tua, che per me è mortifero da un certo punto di vita, perché dopo cinque, sette mesi perdi persino un po’ di vista il fatto che lo stai scrivendo per dei lettori. Quasi hai l’impressione di starlo facendo per te stesso.

A me piace raccontare storie lunghe, è il processo che a volte è demotivante, a parte quei momenti in cui trovi il ritmo giusto, in cui l’attività diventa in qualche modo meccanica, in cui riesci a lavorare mentre ti guardi una serie TV, per dire. Pare una vita idilliaca che vorremmo fare tutti, però dipende davvero dai momenti e dai periodi.

Come dicevi prima, “La scuola di pizze in faccia del professor Calcare” è, sostanzialmente, un’operazione editoriale la cui fase creativa avviene altrove, lontano dall’editoria, sui social e sul blog. Mi chiedo se, a questo punto della tua carriera, da “fumettista più famoso d’Italia”, quella dimensione lì non sia anche diventata il tuo strumento per conoscere e tenere d’occhio il tuo stesso pubblico, per provare delle cose e vedere come reagisce la gente, per poi usarle altrove. Oppure è una cosa cervellotica mia che a te nemmeno viene in mente?

Zerocalcare – No, non mi viene proprio in mente. L’ho fatto in un altro senso, usando invece i libri come banco di prova. “Dodici” è stato il mio terreno di sperimentazione per “Dimentica il mio nome”, dove ho testato in qualche modo il fatto di non essere io, di non avere il mio alter ego al centro della storia, ma qualcun altro. Però sono test che non faccio sulle cose che metto online, che non sono quasi mai razionali o pensate. Vengono proprio così.

Cambiando un po’ argomento, c’è una cosa che ho letto negli ultimi mesi, una tua dichiarazione sul concetto di impegno. Anche in politica, oggigiorno. Dicevi che questo è un momento in cui è fondamentale prendere posizione sulla contemporaneità. Sono convinto da sempre che la dichiarazione politica – o filosofica, morale, etica, sociale, chiamala come vuoi tu – più importante che abbiamo a disposizione sia nei modi in cui diciamo le cose, più che nei contenuti. E, vista la coerenza che hai dimostrato da questo punto di vista nella tua carriera, ho l’impressione che tu queste dichiarazioni le faccia sempre, a prescindere da quel che racconti.

Kobane Calling oggi, copertina di Zerocalcare

Zerocalcare – Io cerco di avere sempre dei paletti, nelle cose che racconto. Che siano di linguaggio o di altra forma non importa. Per dirti, io uso un sacco di parolacce, ma la mia regola è che non siano mai aggressive, omofobe o discriminanti. Nei miei modi di raccontare cerco sempre di mantenere una costanza, da questo punto di vista, che regge sia quando parlo di una cazzata sul copripiumino che quando faccio un reportage sul Kurdistan.

Sono d’accordo con te, nel senso che non abbiamo bisogno di prediche, oggi come oggi. Da parte dei narratori abbiamo bisogno di persone che facciano vivere l’immaginario del mondo che uno vorrebbe, che facciano vivere un modello di mondo futuro nelle proprie opere per provare a trasmetterlo ai lettori. Non dicendo alle persone cosa sia giusto o cosa sia sbagliato, ma raccontando al pubblico la maniera in cui si vorrebbe che le robe andassero. E questo, hai ragione, cerco di farlo sempre. Con più o meno evidenza, ovviamente, a seconda delle situazioni. Effettivamente il rispetto di quel modo di raccontare, del tipo di linguaggio che vorrei nelle mie opere, è importante per me.

Parto da una questione di gusto personale e poi arrivo a una domanda. Di tutti i tuoi libri, “Macerie prime” è quello che mi è piaciuto meno. Lì racconti delle paturnie da adulto che fatica con il mondo degli adulti. Mi ci sono ritrovato, nei temi, ma ho sentito una distanza tra linguaggio e tema, per restare sull’argomento. Invece i due libri tuoi a cui sono più legato sono “Dimentica il mio nome” e “Kobane Calling”, in cui hai dovuto scavare, cercare la storia. Mi sono fatto questa idea, forse sbagliata, secondo cui sempre di più questa sia la tua dimensione: funzioni meglio quando ti vai a cercare le storie? E hai voglia di farlo?

Zerocalcare – In realtà io non ho mai l’impressione di cercare le storie. Anche a Kobane non sono andato per scrivere poi un fumetto. Il fatto è che faccio una cosa in cui capitano cose a me, alcune delle quali, mi sembra, vale la pena raccontarle. Quindi sicuramente, quando c’è qualcosa che mi colpisce in particolare, funziona di più. Ma il punto è che io non me ne accorgo prima. Per dirti, io sono molto legato a “Macerie prime”.

Sì, ho letto dichiarazioni in cui lo dicevi.

Zerocalcare – Come anche a “Dimentica il mio nome”, per dirti. Il punto è che “Macerie prime”, per tornare a quel che dicevo sui banchi di prova, coinvolge altri personaggi, situazioni nuove, in qualche modo, mi permette di fare dei passi avanti, mi consente di farmi coinvolgere da situazioni con cui mi sento meno a mio agio e che mi servono per sviluppare dei nuovi strumenti.

Gli episodi di “Rebibbia Quarantine” andati in onda durante “Propaganda Live” hanno avuto un grande successo, e ora molti spettatori del programma sono diventati tuoi fan. Come è nata quest’idea? Sappiamo che in tanti sono andati a recuperare la tua produzione fumettistica, possiamo aspettarci qualcos’altro in futuro?

Zerocalcare – In realtà volevo fare un primo report a fumetti dopo i primi tre giorni di quarantena, l’avevo anche iniziato, poi all’ultimo ho deciso di trasformarlo in un mini-cartone. Un po’ perché mi divertiva l’idea di mettermi alla prova con un “corto” un po’ più elaborato di quello che avevo fatto finora, un po’ perché mi sembrava un linguaggio più immediato, adatto alla fase di confusione che stavamo attraversando.

Io sono contentissimo perché mi pare di essermi portato a casa una cosa che cercavo da tanto, ovvero la possibilità di fare un cartone di senso compiuto che possa essere proposto a un pubblico vasto, completamente da solo e in tempi brevi. Che è una cosa con cui mi scornavo da un paio d’anni, con tutto il mondo che mi diceva che era impossibile. Poi ovvio che la qualità è quella che è, però intanto quest’esperienza mi ha dato un sacco di idee e di voglia di alzare l’asticella, man mano che inizio a capire le opportunità del mezzo.

Statuina Zerocalcare

BAO Publishing ha da poco annunciato una linea di statuette basate sui personaggi del tuo universo narrativo. Hai avuto un ruolo nella scelta delle varie figure? E in generale cosa ne pensi di questa iniziativa?

Zerocalcare – Le figure le abbiamo scelte insieme, io contro quello che pensa un sacco di gente in verità sono divertito da questa cosa. Togliendo il personaggio che rappresenta me stesso, che per ovvi motivi mi imbarazza perché non sono il presidente della corea del nord e non è che vado matto per il culto della personalità, mi piace l’idea che ci siano delle action figure con gli altri personaggi: io sono uno che quelle cose le compra, le colleziona. Le action figure sono una parte fondamentale della cultura nerd.