Dopo la prima – e finora unica – disegnatrice di Aquila della Notte, in occasione dei settant’anni di Tex abbiamo incontrato per voi uno dei più grandi fumettisti italiani, colonna del nostro ranger e suo impareggiabile copertinista: Claudio Villa.

L’autore comasco, a cui siamo profondamente riconoscenti, ci ha omaggiato con ben tre splendide immagini inedite: si tratta degli sketch preparatori (poi scartati) per le copertine di Tex 691, Tex 701 e Maxi Tex 20. Ecco com’è andata la nostra chiacchierata con lui…

 

Ciao, Claudio! Benvenuto su BadComics.it e grazie per la tua disponibilità, nonostante i tuoi innumerevoli impegni. Partiamo dal tuo debutto su “Tex”, avvenuto nel settembre del 1986 con il numero 311, “Il ranch degli uomini perduti”. Che ricordi hai di quel momento?

Claudio Villa

Grazie a voi per l’interessamento dimostratomi. I ricordi legati al momento a cui ti riferisci sono belli e terribili allo stesso tempo. Come premessa, devo dire che ho sempre amato il western. Quando ero a bottega da Franco Bignotti per imparare il mestiere, mi ripeteva spesso: “Lo so che ti piace il western, ma qui in Italia non è facile, perché western vuol dire ‘Tex’ e per arrivare a disegnarlo la strada è difficile”. Per me “Tex” è sempre stato un sogno, poi, un giorno, vengo chiamato dalla Casa Editrice e mi viene proposto di disegnare “Tex”.

Ho così scoperto la differenza tra sogno e realtà: mi sono trovato davanti un vero e proprio universo, che non è tutto rose e fiori – come credevo anch’io – quando non l’hai mai affrontato prima. Ti rendi conto che hai a che fare con un monumento del Fumetto italiano e senti su di te una responsabilità enorme, perché “Tex” non è tuo. Altri lo hanno creato e altri lo hanno disegnato prima di te, contribuendo a farlo entrare nel cuore dei lettori e a renderlo il fumetto per eccellenza nel nostro Paese.

Senti il dovere, innanzitutto, di non rovinare il loro lavoro. Sei tu che ti devi mettere al servizio dell’eroe e non viceversa. La tentazione di disegnare “finalmente” una propria versione di “Tex”, sganciata dalla tradizione si rivela ben presto un’idea sbagliata. Invece, devi renderti conto di cosa stai maneggiando, che è qualcosa di veramente delicato e che ha bisogno del massimo rispetto.

Per “Il ranch degli uomini perduti”, la mia prima storia di “Tex” sceneggiata da G.L. Bonelli in persona, con la supervisione di Tiziano Sclavi, ero molto preoccupato per ogni cosa, in particolare i cappelli: i cappelli insieme ai cavalli sono i soggetti più difficili da disegnare. E infatti li ho sbagliati in gran parte, disegnandoli enormi. Per cui prima della pubblicazione ho dovuto mettere mano alle vignette e ridurne la dimensione.

Anche il viso di Tex era ancora “acerbo”: lo disegnavo sempre incazzato per una mancanza di conoscenza profonda del personaggio. Rammento che un lettore aveva scritto, riguardo quella mia prima esperienza, che avrei fatto meglio a disegnare “Diabolik” e non “Tex”. [Ride] Non aveva torto. Sul foglio era finita l’idea che avevo allora di Tex, uno che la sapeva lunga ma che era sempre un po’ incazzoso e attaccabrighe.

In che modo è maturato e si è affinato in seguito il tuo approccio al personaggio, divenuto poi iconico?

Claudio Nizzi è stato fondamentale nel farmi comprendere Tex, e ce ne vuole per arrivare a comprenderlo a fondo. Ancora oggi sono alla ricerca del vero Tex, una ricerca che non finisce mai, perché imparo nuove cose su di lui ogni volta che lo disegno. Disegnare un personaggio è come frequentare una persona: sai che non puoi mai dire di conoscerla alla perfezione, ma continuando a stare insieme a lei entrerai più con confidenza e la sua conoscenza sarà sempre più approfondita.

Per entrare in quest’ottica devo molto a Claudio, che mi ha tracciato il profilo psicologico del personaggio e mi ha fatto capire che Tex è uno che sta “sopra” le cose, non si fa coinvolgere emotivamente e ha una vena ironica che stempera ogni situazione.

C’è un disegnatore storico di “Tex” che ti ha particolarmente influenzato nell’approccio iniziale o a cui ti senti più vicino graficamente ancora oggi?

Assolutamente sì. Certo. Il mio Tex si ispira a quello di Giovanni Ticci. Chiaramente il riferimento principale è quello di Aurelio Galleppini, però quello di Galep è un Tex molto personale, che solo lui sapeva gestire da un punto di vista stilistico. Tentare di imitarlo, a parer mio, sarebbe stato solo controproducente e poco convincente.

Noi della “nuova generazione”, che siamo venuti dopo grandi nomi storici quali Guglielmo Letteri, Fernando Fusco ed Erio Nicolò, il punto di riferimento era ed è Ticci. Ho amato fin dall’inizio il “suo Tex”. Un Tex Willer con gli occhi a fessura, come quelli di chi è abituato a stare ore sotto il sole a picco, e con un’aria seria, da duro. A Ticci ci si ispira poi, anche per quanto riguarda tutto il resto di quel mondo, dai paesaggi ai dettagli di una sella o di un fucile. Giovanni ha lavorato per anni per il mercato americano disegnando fumetti western. Ha una documentazione e una conoscenza impeccabili.

Ho amato di Galep le atmosfere misteriose e magiche, quando per esempio rappresenta Mefisto: la capacità di raccontare con segni efficaci situazioni irreali rendendole vive e palpitanti.

Cosa ha significato per te ricevere il testimone di copertinista dallo stesso creatore grafico di Tex, Aurelio Galleppini?

È stata un’altra responsabilità da far tremare le vene ai polsi. Speravo tanto che la vita regalasse più tempo a me e a Galep da trascorre insieme, perché potesse accompagnarmi nei miei primi, tremanti passi da copertinista; purtroppo è andata diversamente, e ho dovuto cavarmela perlopiù da solo, cercando di rispettare la tradizione.

Da esperto in materia, com’è cambiata in tutti questi anni la concezione di una copertina di “Tex”?

È cambiata tantissimo. Agli inizi, quando l’albo ha sostituito la striscia, le copertine venivano realizzate riutilizzando disegni già fatti da Galleppini. Nelle copertine dei primi numeri del cosiddetto “Tex Gigante”, l’attuale testata regolare, si vedono spesso interventi di Franco Bignotti, che ha disegnato particolari aggiuntivi come una pistola o teste di indiani, per completare l’immagine; inoltre, l’impostazione grafica era molto più libera e creativa in quel periodo.

Anno dopo anno, la gestione della copertina ha subito un processo di “evoluzione” fino a “cristallizzarsi” nella “copertinizzazione” di una scena proveniente dall’interno dell’albo. Sergio Bonelli, che curava personalmente la scelta dell’immagine, tendeva a preferire una scena dove non ci fossero sempre sparatorie o scazzottate, salvo quando necessarie, per evitare un’inflazione e dare la sensazione di vedere sempre la stessa scena in copertina.

Dall’arrivo di Mauro Boselli come curatore del personaggio, stiamo cercando di trovare spunti anche ispirandoci alla gestione libera e creativa dei primi periodi di “Tex”, sempre restando nel solco della tradizione ormai cara al pubblico di affezionati lettori.

Ci hai spiegato come si è evoluta la concezione di una copertina di “Tex”. Ora ci potresti raccontare del tuo personale processo creativo che porta alla creazione di quei piccoli gioielli che ci regali con continuità?

Spesso parto dal titolo, ma a volte non è stato ancora deciso. Mi viene fornito l’albo in formato digitale, lo esamino tutto e poi, con Mauro [Boselli] e con il suo assistente Giorgio [Giusfredi] ragioniamo sull’immagine che può andar bene. Quindi, preparo degli schizzi sulle ipotesi vagliate e alla fine, Mauro e Giorgio , sentito anche il parere del direttore editoriale Michele Masiero, decidono quello che ritengono il più adatto.

Dopo oltre 700 numeri diventa sempre più complicato non ripetersi e creare un’immagine classica che risponda a certi canoni di racconto di un fumetto nato alla fine degli anni Quaranta, ma che sia al contempo moderna e accattivante, che susciti nei lettori di oggi la voglia di acquistare l’albo. Il momento più complicato, che assorbe più tempo, è ormai diventato la “messa a punto” dell’immagine: studiare innanzitutto una scena che non ricordi troppo da vicino un’altra copertina già pubblicata (in questo Sergio Bonelli era molto attento), poi calibrare l’inquadratura per suggerire anche, dove possibile, un minimo di emotività e non solo pura azione.

Durante tutti questi anni, alcune scene si sono rivelate anche una autentica “prima volta” per il mondo di Tex, anche se non credo che tutti i lettori se ne siano accorti. Per esempio, nell’albo intitolato “I cacciatori di bisonti” [“Tex 522”, luglio 2007 – NdR], Tex è visto di spalle e inquadrato leggermente dall’alto. Si trova di fronte una prateria ricoperta dalle carcasse abbandonate dei bovini uccisi. La cosa inusuale per Tex è l’inquadratura di spalle e dall’alto. Di solito l’eroe viene inquadrato frontalmente e leggermente dal basso, per enfatizzare l’aura da eroe. Ma qui il soggetto principale non è Tex , è lo scempio di quegli animali uccisi. E lui, da uomo del west che rispetta la Natura, è fermo, appena sceso da cavallo. Il lettore si trova a immaginare cosa stia provando Tex in quel momento. Non c’è azione. C’è una situazione, cosa per Tex piuttosto insolita. Nell’immagine c’è poi la citazione delle montagne sullo sfondo, che arrivano dritte dritte dal paesaggio immortalato nel film “Il cavaliere della valle solitaria”, con protagonista Alan Ladd, un attore molto amato da Sergio Bonelli.

Usi solo strumenti tradizionali o anche digitali?

Tradizionali. Sono ancora un dinosauro che usa carta, matita, pennarello e pennello. [Ride] Sono affezionato a questo modo di lavorare. Vedo miei colleghi che usano il digitale con risultati straordinari. In merito alla questione “digitale si, digitale no”, penso a quando in un lontano passato l’uomo dipingeva solo con le mani e qualcuno si è presentato con un legnetto in mano che aveva un po’ di pelo in cima: ci sarà stato sicuramente qualcuno che si è lamentato dicendo che quello non era dipingere. [Ride] Ma quel legnetto con il pelo in cima ha permesso di esprimersi in modi sconosciuti fino a quel momento.

È una questione di strumenti. Come il pennello, il computer è uno strumento: una volta che lo sai usare, sei sempre tu che realizzi il disegno, non lo strumento; anche se il progresso tecnologico ti fornisce mezzi con i quali riesci a fare sempre più cose e sempre in più breve tempo.

Va anche considerato che con il digitale si perde il concetto di originale: una tavola realizzata con i metodi tradizionali è unica e irripetibile, con il digitale è, a tutti gli effetti, una stampa. Credo che in fondo il digitale sia un’evoluzione inevitabile e, come sempre accade, si perde qualcosa e qualcosa si guadagna. Molti miei colleghi sanno usare bene sia il foglio che la tavoletta grafica e penso sia l’optimum: una buona manualità aiuta a destreggiarsi meglio anche sul digitale.

 

 

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