Tra le novità che Tatai Lab avrebbe presentato a Cartoomics lo scorso weekend c’è Otedama, la prima graphic novel dell’autrice romagnola Francesca Farinelli.

In attesa dell’uscita del volume, che sarà disponibile tra poco sullo shop online della casa editrice, abbiamo contattato la fumettista per chiederle cosa dobbiamo aspettarci da Otedama.

 

Benvenuta su BadTaste.it, Francesca!
Ti va di presentarti ai nostri lettori?

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Grazie dell’ospitalità! Solitamente mi faccio chiamare “Fran” (avete mai sentito un americano pronunciare tutto il nome Francesca? Ha davvero lo stesso accento di Brad Pitt in “Bastardi senza gloria”), ma quando combino qualcosa, uso il nome ARTeapot, che risale ormai ai tempi dell’università.

Mi sento un po’ vetusta, ho trent’anni, e per parte del mio tempo sono un grafico editoriale, ma quando il gatto si sposta dalla scrivania, faccio disegnetti. Ho una vita artistica abbastanza soft, non ci ho mai creduto molto. La vera spinta è stata riuscire a lavorare tre anni fa per Riot Games (sì, quelli di “League of Legends”) con una grandissima botta di fortuna. Per loro ho disegnato il mio primo fumetto serio che non fosse la tesi di laurea, un paio di pubblicità e qualche progetto super segreto per il marketing.

È stato davvero come accendere la miccia alla dinamite, e devo davvero molto all’editor che mi ha contattata. Se non fosse stato per il suo aiuto e supporto morale, non avrei mai e poi mai inviato il portfolio al team Tatai. All’inizio ho mandato il curriculum per il progetto che si è rivelato essere “Wondercity” – una cosa, con il senno di poi, davvero diversa dal mio modo di disegnare – ma mi hanno risposto personalmente chiedendo se avessi una storia da proporre. Ho pianto tipo dieci giorni di fila.

Spulciando tra i tuoi profili social, ho scoperto alcune illustrazioni con il protagonista di “Otedama” che risalgono a più di due anni fa. Quando ti è venuta l’idea per questo fumetto? E cosa l’ha ispirata?

Molto più di due anni fa! In realtà è nato tutto, come sempre, da “League of Legends”. Quando tumblr ancora era una bella piattaforma (e qui si percepisce l’aria del giurassico), ogni tanto nella community ci si divertiva a creare skin che ancora non esistevano per i propri campioni preferiti. Durante il periodo della Luna di Sangue (che è un evento molto legato all’estetica e al folklore orientale) ho iniziato a pensare a una skin mia, che però non riuscivo ad allineare bene con il tema un po’ dark e sanguinoso. Mi piacciono le cose in sordina, quindi ho creato un monaco piccolino con i capelli strani. Con il tempo si è staccato dal fandom ed è diventato un personaggio tutto suo, anni luce dall’idea originale, pur rimanendo un monaco piccolino con i capelli strani. La storia vera e propria è venuta tempo dopo.

È stato svelato davvero poco di questo fumetto, ci puoi raccontare qualcosa sull’ambientazione e sulle tematiche della storia?

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“Otedama” è un involontario mistero editoriale! Ho voluto dare alla storia un sapore orientale, perché le culture in cui il divino è così presente anche nel mondo moderno sono le mie preferite (e mi diverte disegnare i pattern dei kimono). Ho sempre avuto un debole per le cose al limite tra misticismo e religione. A suo tempo ne ho fatto anche l’oggetto della mia tesi di laurea. Il folklore orientale dà la possibilità di creare un volto visibile per qualsiasi cosa che sia invisibile, perché è una delle culture con più patrimonio immaginifico.

Ho usato questa possibilità molto “reale” per parlare di cose reali, ma intangibili. “Otedama” è un viaggio per imparare a capire come affrontare tutta la negatività che la vita ci obbliga a incontrare, cercando di bilanciarla con quanta più positività il nostro spirito riesca a trovare. È molto ispirato alle storie e alla religione buddhista, che mi ha sempre colpita per la semplicità e arguzia delle sue parabole, e per la delicatezza con la quale affronta il senso di equilibrio e appartenenza nei confronti del mondo. E poi, cosa importantissima, c’è un cane parlante!

Le prime immagini mostrano maschere e costumi provenienti dal teatro kabuki. Sei un’appassionata di questo genere?

Adoro il teatro kabuki! La bellezza dei costumi è davvero incredibile. Sono tutti così soffici, grandi, colorati e pomposi. Basti sapere che il nome deriva da “kabuku”, che significa “fuori dall’ordinario”. È una forma di teatro al limite dell’assurdo, fatta di gesti, suoni e silenzi, danze e movenze, un incanto da guardare. Il teatro in costume è sempre stato affascinante per me, perché riesce a sospendere completamente la realtà e portare sul palco un pezzo di universo alternativo. Il teatro kabuki è il surreale visivo estremo, per me. Ricordo una volta di aver visto una versione dell’Antigone di Sofocle in cui tutti i personaggi recitavano in giacca e cravatta. Ci rimasi malissimo.

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Cercando il termine “Otedama” ho scoperto che è il nome di un gioco tradizionale giapponesi per bambini: è questo il senso del titolo oppure nella storia scopriremo un altro significato?

Esattamente! L’Otedama è un gioco da bambini che si fa con sacchettini di stoffa riempiti di fagioli. Si usano i ritagli di stoffa che si trovano in casa, si riempiono di fagioli secchi e si lanciano come farebbero i giocolieri. Si può giocare in compagnia ma anche da soli, e spesso si accompagna con il canto. Ci sono moltissime “figure” di lancio da fare, ma il senso è sempre quello di lanciare e riprendere, bilanciare la forza e la precisione per non far cadere nemmeno un sacchettino. Anche il senso del fumetto è proprio quello: bisogna sapere come bilanciare il bene e il male, la forza e la presa. E sapere quando servono più di due mani per afferrare tutto.

Nonostante la tua giovane età, hai uno stile grafico fortemente caratterizzato e facilmente riconoscibile. Quali sono gli artisti che più ami e le influenze che ritieni siano confluite nel tuo tratto? 

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Grazie per la giovane età! In realtà ci sono un sacco di ragazzi molto più giovani di me con mani artistiche fortissime. Io ormai mi sento un rudere.

Il mio stile (se così si può chiamare) è quello della comfort zone. Ho sempre disegnato per “sentirmi a mio agio”, cercando di modificare tutto quello che mi creava problemi, rendendolo morbido e “gommoso”. Mi ricordo ancora quando, all’accademia d’arte, ho cominciato le mie prove di stile e ho dovuto disegnare una storia decisa in gruppo con un clown assassino. Il mio clown sembrava una caramella innocua. È un modo di disegnare un po’ vigliacco, lo ammetto, ma ormai qualsiasi cosa veda penso a come sarebbe se fosse soffice e gelatinosa, e questo mi fa sentire “al sicuro”.

La cosa strana è che i miei artisti preferiti sono tutto l’opposto. La mia illustratrice preferita è Rebecca Dautremer, che ha una potenza nella resa grafica delle immagini e nel colore semplicemente insuperabile. La mia pittrice preferita è Frida Kahlo, che è cruda, forte e coraggiosa anche nella pittura. Ma l’arte grafica mi piace tutta, sono appassionatissima di “Blacksad”, adoro il lavoro di Cyril Pedrosa (“L’età dell’oro” è, credo, uno dei fumetti più belli che abbia mai visto) e contemporaneamente la resa fumettistica di Gabriel Bá o il tratto di Carey Pietsch (leggete “The Adventure Zone”, mi ringrazierete, è divertentissimo).

Mi piacciono tutti quegli stili “strani”, che sono la rielaborazione e la semplificazione del reale, che sono peculiari, caldi, forti, con un’identità che fa subito dire: “Ah! Ma è il lavoro di…!”. Sono fortunata, perché ci sono moltissimi disegnatori con mani favolose, e leggere fumetti è il miglior passatempo dell’universo. Il grosso del problema è che, vivendo in un bilocale, ormai non so più dove mettere tutti i libri.

Hai raggiunto una certa notorietà con illustrazioni e storie brevi per videogiochi come “League of Legends”: come ti sei avvicinata al mondo videoludico?

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Non la chiamerei proprio notorietà, ma diciamo che me la cavicchio. Il mare è pieno di pesci colorati e io sono una sogliola (che, comunque, fritta è buonissima).

I videogiochi mi sono sempre piaciuti tantissimo, perché sono storie a cui puoi partecipare attivamente. La mia vita è stata votata al grande e meraviglioso culto di “Legend of Zelda”, che adoro da sempre. È importantissimo, per me, perché Hyrule è il posto in cui mi sono nascosta quando avevo bisogno di respirare. Dai dungeon di pixel fino all’ultimo, nuovissimo “Breath of the Wild”, Zelda è un mondo a tutto tondo, con personaggi, luoghi, storie pensate in modo meticoloso e affascinante. Lo dico sempre: quando il mondo mi opprime, vado a pescare al Villaggio Vappesca. Ho un inventario mostruosamente fornito.

Onestamente faccio abbastanza schifo con i videogiochi, nel “gioco” vero e proprio, ma il worldbuilding è il mio dominio. È successo così anche per “League of Legends”: all’inizio ci giocava solo il mio migliore amico. Ricordo ancora la prima volta in cui ho visto una partita e ho pensato: “Perché vi state inseguendo e tirando le pantofole?”. Poi ho cominciato a conoscere i personaggi, i mondi creati, le storie, le musiche ed è stato amore. Ho avuto la grande fortuna di andare a Los Angeles, al quartier generale, per un progetto e volevo piangere a ogni angolo dall’emozione. È una cosa grande, davvero grande. Faccio ancora schifo a giocare, ma faccio schifo con passione.

Purtroppo la mia famiglia ha sempre odiato i videogiochi. È difficile far capire che non sei solo lì a “perder tempo” e che c’è molto di più, quindi ci giocavo di nascosto, mi facevo prestare le console o andavo a casa di qualcuno per guardarlo giocare. Che poi, anche “perdere tempo” è un sacrosanto diritto. Ora che sono un’adulta funzionale e ho una casa tutta mia, posso liberamente fare le tre del mattino catturando Pokémon. Anche se non so quanto sia salutare.

“Otedama” è la tua prima graphic novel: lavorandoci, quali difficoltà o differenze inaspettate hai riscontrato rispetto ai tuoi precedenti lavori?

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Posso essere sincera? Disegnare per me non è “difficile”. Disegno braccia e gambe che sembrano spaghetti, non c’è proprio niente di difficile. E fare fumetti, con tutti gli errori narrativi che comunque posso combinare, non mi è mai sembrato complicato. Ho sempre “pensato a vignette”. La grande difficoltà di “Otedama” è stato il tempo.

Fino all’anno scorso, lavoravo in un’azienda della mia zona che produce elementi d’arredo personalizzati. Un incubo. Straordinari obbligati e continuativi, telefonate come sassate, una mole di lavoro infinita tutta su una persona, con una direzione opprimente, manipolativa e verbalmente violenta. Dopo quasi quattro anni di resistenza, non riuscivo a dormire senza prendere la melatonina, avevo mal di testa ed emicranie cinque giorni su sette, ero quasi completamente dipendente dagli antinfiammatori, avevo il terrore dello squillo del telefono, e potevo disegnare e fare altri lavori solo quando tornavo a casa (sempre tardissimo) e non stavo troppo male. Avevo voglia di fare, avevo le idee, avevo tutto… tranne il tempo.

L’anno scorso ho perso la mia più cara amica e collega in un brutto incidente, e mi sono ritrovata da sola in quell’ufficio soffocante. Lei mi chiedeva sempre: “Ma con tutte le cose che sai fare, come mai sei ancora qui dentro?”. Mi vedeva sempre più brava e più magica di quanto io mi consideri, e mi dispiaceva doverle rispondere “per lo stipendio”. Alla fine tutto è diventato davvero troppo, ho sofferto moltissimo e mi sono licenziata. Sono rimasta tappata in casa con le crisi d’ansia per due mesi, avevo paura che mi venissero a prendere come con i rastrellamenti tedeschi. Poi ho ricominciato a vivere.

Ora posso davvero disegnare sempre, ora posso pensare sempre e creare. È difficile guadagnarsi la pagnotta, infatti mantengo un lavoro parallelo come grafico editoriale, ma almeno è per una persona che adoro e che mi ha davvero aiutata a salvarmi. E adesso ho tempo.

“Otedama” è nato un po’ travagliato e mozzicato dagli eventi, ma adesso ho tempo, quindi chissà cosa riserva il futuro!

 

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