L’idea per La Belva è venuta in origine ad Andrea Paris, produttore di Groenlandia, ed era semplice: “Fare un film di botte o di menare, come li chiama lui”.

In quel momento Ludovico Di Martino aveva collaborato con la società realizzando un elaborato backstage di Il primo re e da quel momento avrebbe cercato una storia e uno svolgimento possibili assieme a Claudia De Angelis per tornare con una proposta che sarebbe stata La Belva. Non è un modo di produrre frequente per il cinema italiano e lo stesso Di Martino lo riconosce: “È interessante che una produzione avvicini un regista dicendo che c’è bisogno di un certo tipo di film senza dare indicazioni su trame e personaggi”.

Il film è poi stato acquistato da Netflix e nonostante fosse previsto un passaggio in sala, visto lo scenario è andato direttamente online più di una settimana fa. Noi abbiamo sentito Di Martino per capire cosa ci vuole per fare dell’azione e delle botte per bene, scoprendo che non è difficile quanto si potrebbe pensare.

Qual era l’idea iniziale? Quella con cui siete tornati da Groenlandia

“C’era subito Leonida, il vendicatore, è la prima cosa che abbiamo costruito con una sua credibilità, tanto che ho iniziato a salvarmi le foto di Gifuni perché mentre scrivevamo pensavamo a lui. Già nella prima stesura c’erano lui e un figlio ma andava in tutt’altra direzione, era più violento e in giro per il mondo, una cosa produttivamente complicatissima. Siamo passati attraverso tante riscritture, praticamente abbiamo scritto quasi 3 film diversi con questo Leonida protagonista (come fosse una saga) prima di arrivare a quello finale. È stata una ricerca e uno studio accompagnato da molti film, anche brutti (che sono importanti lo stesso)”.

Cosa hai imparato da quelli brutti?

“Abbiamo tutti registrato nell’inconscio molte dinamiche e per questo siamo dei bravi detective quando vediamo questi film, meglio di quando li scriviamo. Per noi la parte difficile era la detection, per questo vedevamo molti film e sono tutti uguali: c’è sempre il tatuaggio del criminale che ti mette sulla giusta strada ad esempio. Dunque era difficile trovare delle alternative. Ho visto un film con Dolph Lundgren di cui non ricordo il titolo che è pazzesco, un cliché vivente, prevedibilissimo ma pieno di ironia che è l’unica cosa che noi non ci possiamo permettere, perché non facciamo questi film da 40 anni. Cioè noi non possiamo girare Red per dire, ci dobbiamo arrivare”.

la belva gifuni

È stato difficile ottenere Fabrizio Gifuni?

“Quando in una riunione ho buttato lì l’idea sono tutti impazziti per il cortocircuito. Che poi non lo volevo per quella ragione lì ma perché mi serviva qualcuno con una gran voglia di rendere tutto vero e credibile, di abbassare un po’ la nostra tendenza a spararla alta, come un tiro alla fune. Se invece avessimo preso un attore maschio alfa che si fomenta a fare un film simile lui avrebbe continuamente rilanciato sull’azione e sull’esagerazione. Ci serviva qualcuno di bravissimo che per inclinazione personale fosse portato a dire: “No aspetta, capiamo prima di cosa c’è bisogno” e che ci riportasse coi piedi per terra. Il lavoro sul tono del film è complicato, la parte più difficile di tutte e l’abbiamo portato avanti con lui lungo i mesi in cui si allenava e provava le coreografie”.

Le coreografie e l’esecuzione delle botte sono impeccabili. È complicato raggiungere uno standard internazionale simile da zero, da che in Italia non lo facciamo mai?

“Abbiamo avuto la fortuna di lavorare con la EA stunt, in particolare con Emiliano Novelli e Paolo Antonini che ha preparato Fabrizio e ha studiato le coreografie con me. Senza di loro non sarebbe possibile fare film di questo tipo. In realtà in Italia abbiamo un grandissimo know how, solo che fino a 5 anni fa queste persone lavoravano con le produzioni americane e basta. Adesso invece fanno anche i nostri film. Il discorso è davvero semplice: la coreografia di un combattimento è un balletto, quindi la puoi studiare in palestra, poi fai un bel sopralluogo, fai le prove e anche una prova generale il giorno prima in costume, come a teatro, e infine vai sul set. A quel punto è tutto studiatissimo e in insicurezza, pronto nei minimi dettagli. Sono semmai gli inseguimenti ad essere difficili perché li puoi provare solo con i modellini e non è la stessa cosa. E chiaramente poi ci vuole l’attore, perché mica deve solo dare e prendere cazzotti, deve essere sempre credibile e realistico. C’è tutta la recitazione di restituire l’essere un orso affaticato”.

Se è così semplice perché a parte La Belva ci vengono sempre male?

“Credo che la cosa più banale sia quella vera, cioè che manca la preparazione. Avere due mesi e mezzo di disponibilità degli attori e degli stunt ad andare in palestra 5 volte a settimana e provare, studiare e interrogarsi sulle coreografie crea un prodotto migliore. Ho fatto anche un test dei combattimenti ancora prima che arrivasse Fabrizio con gli stunt, abbiamo studiato tutto pure con una mini troupe, per renderci renderci conto se lo stile dei combattimenti potesse funzionare. Avere il tempo e quindi i soldi per preparare fa la differenza. È capitato anche a me di non aver preparato qualcosa bene e di dover minimizzare il rischio sul set, finendo a rifugiarmi in soluzioni semplici. La cosa bella di Groenlandia invece è che fa un lavoro non solo sullo sviluppo ma sulla preparazione del progetto”.

Quant’è costato questo film?

“Due milioni e mezzo credo”.

la belva botteLevami una curiosità ma Fabrizio Gifuni li conosceva i film a cui si ispira La Belva?

“Diciamo che conosceva i più popolari, poi noi lo abbiamo introdotto ad altri con un po’ di DVD, facendogliene vedere di specifici. È ferrato sul pop eh”

Avete mai pensato a fare tutto con una controfigura?

“No. Se rivedi oggi The Bourne Identity noti che i combattimenti sono invecchiati, sono confusi e pieni di tagli, specie il primo non si capisce molto, non sai chi è il nemico e vedi che non c’è Matt Damon ma uno stunt. Invece John Wick è il contrario, è chiaro. Ma pure se vedi Brawl In Cell Block 99 ha una sua ricerca pazzesca nell’uso dell’attore al centro dell’azione. Alla fine la sensazione è più importante della singola interazione e penso che il linguaggio dei videogiochi ci abbia contaminato molto, io in primis gioco molto”.

Beh impossibile non notare che Gifuni ha il look di Kratos in God Of War…

“Mio Dio che gioco. Però quello l’ho giocato durante il lockdown, non prima”.

Ho notato che la polizia ha delle strane divise, ci sono stati problemi?

“No è che la polizia è un problema estetico. Le divise della polizia e dei carabinieri hanno qualcosa che non ci porta dalle parti dell’action, pensa l’inseguimento che c’è nella Belva se ci avessimo messo la volante con la striscia azzurra e bianca, non riuscivo proprio ad immaginarla in un contesto d’azione che si cappotta. Allora abbiamo creato noi macchine come diciamo noi e divise inventate, disegnate apposta per essere interessanti. Un poliziotto italiano distrugge e spezza il patto di credibilità nell’azione. Del resto se vuoi fare un film realistico su una ragazzina che sparisce è un casino, perché non succede mai, nessuno è preparato. Invece a noi serve un clima di tensione in cui i poliziotti abbiano in mano la situazione e sappiano subito che fare come se fossero degli specialisti. Ma non è quella l’unica cosa ricostruita anche tutta la questura è fatta da zero come il fast food dove avviene il rapimento è un vero esercizio commerciale che abbiamo mascherato”.

Con tutte le sceneggiature fatte e scartate avete idea di portare avanti una saga, magari quella in giro per il mondo?

“Mi piacerebbe molto. Non vorrei farne chissà quanti, solo un altro per proseguire il percorso della Belva spostando un poco l’asticella e beneficiare dell’aver impostato un mondo su cui costruire”.

Non devi volerlo solo te però….

“Credo che a Fabrizio vada e Groenlandia non mi ha mai fermato fino ad ora. Matteo Rovere non ti ferma mai, nemmeno quando sa che stai andando a sbattere. Ti avverte semmai, ma non ti ferma, ti lascia andare a sbattere. Ed è bellissimo. Non c’è niente di meglio di imparare dai propri errori e avere una persona che ti consente di sbagliare. Ci hanno dato solo un’indicazione: andare dritti, non aver paura di fare un film dritto che sa dove vuole arrivare e ci va senza paura di essere scontato o banale. La banalità non è sempre un male, anche se lo sembra, è la semplicità di sapere di stare facendo un classico”.

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