Come spesso capita, un incontro con Almodovar e i suoi attori si trasforma in un tripudio del regista.

Esigente, cinico ma anche sentimentale, audace e magistrale, gli aggettivi spesi sono molteplici e in alcuni casi, come è capitato stavolta con Antonio Banderas, alcuni si spingono oltre il consentito e dichiarano la superiorità del lavoro con Pedro Almodovar rispetto a tutti gli altri:

La maggior parte di quel che ho vissuto con Pedro è stato meraviglioso perché nella sua vita lui ha rotto tutte le regole del gioco e continua a farlo. Esce dagli schemi del cinema spagnolo tradizionale rischiando e pagando il prezzo di questo e lo sa bene, ne è cosciente perché sa che il percorso che propone al pubbico ha bisogno di essere metabolizzzato, non è immediato. […] Ho girato con molti registi diversi ma mi lancio nel vuoto solo con Pedro […] sono molto contento dei risultati raggiunti con questo film perché ho trovato un registro nuovo e delle note in me che non pensavo di avere […] con Pedro i risultati sono stati superiori a quelli raggiunti con altri registi.

Il perchè di tanta affezione è in parte da ricercarsi nelle molte carriere che Almodovar ha fatto partire (non solo Banderas ma anche Javier Bardem, Penelope Cruz e in un certo senso Carmen Maura) ma soprattutto nell’effettiva audacia dei suoi film. E così è anche per La pelle che abito: "Io scelgo sia il tono che il genere del mio film e allo stesso modo anche il fatto di rispettare o meno le regole di questo genere è affar mio. E io le regole del genere non le rispetto mai” è la sentenza del regista (roba da quarta di copertina di una monografia a lui dedicata) che in effetti questa volta ha girato un horror fuori da ogni convenzione ma comunque spaventoso.

Il tono che ho voluto è molto austero e sobrio. Coscientemente ho evitato tutti gli elementi gore o splatter che potrebbero sembrare scontati o impliciti in una storia simile. Ho sentito però che se avessi insistito sul gore la sottolineatura sarebbe stata insostenibile, per questo volevo esplorare il lato più sobrio della storia. Credo inoltre che in questo modo di essere riuscito ad ottenere un effetto molto più potente che se avessi adottato una misura più efferata.

A conferma di quanto detto, La pelle che abito è un film che parla di corpi aperti, dilaniati e ricostruiti con una perfezione che ha del terrificante, senza far uscire una sola goccia dal corpo di Elena Anaya. E proprio lei, che aveva il ruolo più complesso del film, diviso in due con un’interiorità diversa dalla sua esteriorità, è stata quella con cui il regista ha lavorato maggiormente come spiega proprio lei:

A un certo punto mi ha detto: ‘Elena c‘è un momento nella vita di un attore in cui deve percorrere un corridoio lungo completamente da solo, come Gena Rowlands in La sera della prima quando, dopo essere stata truccata e coccolata, è ubriaca e deve percorrere un corridoio piena di paura per andare nel mondo reale. Ecco alla fine di quel corridoio ci sono io’. Partendo su queste basi anche fare un personaggio difficile è stato facile.

Anche per Pedro Almodovar il dubbio intorno al personaggio di Elena è il centro del film, il regista infatti chiude rivelando quello che ritiene essere il vero centro della sua ultima opera:

Alla fine il tema che più mi interessava trattare era proprio quello dell’identità e se si dovesse individuare una tesi principale di La pelle che abito è che nonostante gli sviluppi della scienza comunque noi non gli concediamo di avere accesso all’identità di un individuo. Questa è una cosa che sta al di sopra della sua immagine e del suo corpo o dei suoi genitali. E’ qualcosa di intoccabile nonostante qualsiasi manipolazione. E lo vedo come un finale positivo quello in cui un personaggio non muta nonostante tutte le peripezie vissute, ed ancora più importante mi sembra il fatto che questi lo scopra varcando il negozio di sua madre.