Il film Charlie Says diretto da Mary Harron (qui la nostra recensione) racconta gli eventi che hanno portato agli omicidi compiuti dai seguaci di Charles Manson dal punto di vista di tre delle ragazze che vivevano con lui nel ranch in cui vivevano i membri della “setta” e sono state poi arrestate e condannate per i brutali crimini.

A interpretare Leslie Van Houten, Patricia Krenwinkel e Susan Atkins sono state le giovani attrici Hannah Murray, Sosie Bacon e Marianne Rendón che hanno avuto il compito di mostrare un lato quasi inedito di una storia molto conosciuta, prevalentemente dal punto di vista maschile.

Ecco quello che ci hanno raccontato le tre star del film, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti.

Come avete affrontato questa tematica complicata in cui si affronta il tema dell’identità e della manipolazione degli altri?
Murray: È molto interessante perché nel film si possono vedere due fasi diverse della vita di Leslie: la seguiamo mentre subisce il lavaggio del cervello, come accade anche a tutte le altre donne, e poi quando esce da questa dipendenza. Per me è stato davvero importante essere sempre consapevole in ogni momento della fase in cui ci trovavamo durante le riprese.

Bacon: Per me è stato davvero difficile interpretare una persona reale, che è ancora viva, perché ero molto nervosa non volendo rappresentarla in modo sbagliato e non c’è molto materiale su Patricia. Per questo motivo ho deciso di avvicinarmi alle riprese nel modo in cui faccio quasi sempre: ho sfruttato le informazioni che avevo e ho usato la stessa tecnica, ovvero cercare di “vivere” il suo percorso e il suo passato per rendere ogni momento specifico. Non sapevo in nessun modo se ero simile a lei perché non la conoscevo e volevo esserle vicina dal punto di vista emotivo, piuttosto che copiarla in qualche modo. Per me era davvero importante rappresentare il suo cuore e la sua anima per capire chi era e interpretarla in modo rispettoso.

Rendón: Ero davvero felice che Susan Atkins abbia scritto un libro in cui racconta la sua versione dei fatti, in modo da poter conoscere la sua storia narrata in prima persona. Avere a disposizione direttamente la sua prospettiva mi ha aiutata molto, anche perché è morta quasi dieci anni fa.

Prima di accettare la parte conoscevate la storia di queste tre donne e del loro ruolo nei crimini di Charles Manson?
Murray: Penso che tutti sappiano qualcosa del caso di Manson o ne abbiano sentito parlare. Mi ricordo che quando ero una teenager ne ero a conoscenza, sapevo dell’omicidio di Sharon Tate e del fatto che lui fosse il leader di una setta… Quello che penso nessuna di noi sapesse, prima di lavorare al film, fosse la storia individuale di queste tre donne, chi erano o persino i loro nomi. Nessuna di noi conosceva il ruolo di Karlene Faith che, come si vede, è stata una figura davvero importante nel “deprogrammarle” e quello che hanno vissuto.

Bacon: Io non sapevo quasi nulla di quello che ho poi scoperto facendo le mie ricerche dopo aver fatto le audizioni e aver ottenuto il ruolo, come le loro storie e il passato di ognuna di loro. Ciò che è interessante del film è che non approfondisce quanto accaduto prima degli eventi mostrati, però noi conosciamo il loro passato, in modo da portare in vita alcune delle loro esperienze precedenti e perché si trovavano in questa situazione. Penso che fossero delle ragazze normali e quello è l’elemento importante da far capire.

Rendón: Ogni momento nel film era realmente accaduto, come ad esempio la litigata tra Manson e Sadie a cena. Ho imparato davvero molto leggendo lo script!

Avete fatto molte prove prima dell’inizio delle riprese o vi siete incontrate direttamente sul set?
Murray: Abbiamo avuto a disposizione solo un paio di giorni per le riprese, non abbiamo potuto provare molto. Tutte abbiamo però parlato molto con Mary e, personalmente, non amo provare molto. Io e Mary ci siamo sedute con lo script e abbiamo parlato di ogni scena e di quello che stava accadendo, del suo significato, di cosa volevamo rappresentare…

Rendón: Di solito non si prova molto e io provengo dal mondo del teatro e amo davvero farlo, quindi ho apprezzato che Mary ci abbia dato l’occasione di avvicinarsi al materiale qualche giorno prima delle riprese.

Su quali aspetti vi siete concentrate con la regista Mary Harron?
Bacon: Guinevere Turner ha sviluppato e scritto la sceneggiatura in circa quattro anni. Era importante per lei e Mary raccontare la storia delle “ragazze di Manson” dal loro punto di vista e da quello della riabilitazione, se vogliamo chiamarla così, in prigione e dopo senza dimenticare la prospettiva di Karlene Faith che ha deciso di occuparsi di loro e ha lottato davvero per portarle a capire quello che avevano fatto, porre fine a quel lavaggio del cervello e affrontare una situazione così triste. Penso che abbiano davvero raccontato la storia di Manson attraverso uno sguardo femminile, approccio che non è mai stato usato prima d’ora, ed è importante in questo periodo tenendo conto del movimento #MeToo e non solo. Tutto quello che ruota intorno a Manson si concentra molto sul mondo maschile ed è qualcosa che mi annoia ormai, voglio vedere qualcosa di diverso. Probabilmente non avrei girato il film se il progetto si fosse concentrato interamente su di lui perché queste donne non erano una massa di ragazze folli hippie prive di identità, avevano storie e vite individuali. Ho sentito che per me, e credo anche Mary, fosse importante far emergere questo elemento, e sicuramente è stato così per Guinevere.

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Cosa pensate del modo di vivere che contraddistingueva le giornate di queste ragazze mentre erano con Manson che, per certi versi, rispecchiava le idee di libertà dell’epoca?
Bacon: Non sono molto d’accordo personalmente sull’idea di libertà perché forse non sarebbero state arrestate e non avrebbero trascorso l’intera vita in prigione, ma c’era una grande quantità di abusi sessuali e fisici. Quel periodo storico era forse all’insegna dell’amore libero, però gli abusi erano veramente tanti. Con il movimento #MeToo ci sono tante donne che parlano apertamente e dicono ‘Quello che ho vissuto in quegli anni non andava bene e non mi faceva sentire a mio agio’. Manson le manipolava in modo che loro avessero dei rapporti sessuali con altri uomini e con lui. Non credo che solo gli omicidi fossero la parte negativa di quella “famiglia”, per me la situazione era molto più profonda. Forse per alcune di loro era un periodo divertente, eppure c’erano abusi e violenza sessuale.

Rendón: Sono d’accordo e so che quello che noi, Mary e la sceneggiatrice Guinevere Turner volevamo fare era rappresentare qualcuno che era stata vittima ancora prima che iniziassero gli atti di violenza.

Pensate ci fosse qualcosa di positivo in questa famiglia?
Rendón: Certo, e credo che si mostrino i lati positivi nel film perché doveva esserci un motivo per cui sono rimaste insieme. Erano tutte giovani, apprezzavano stare insieme e quella sensazione di appartenere a un gruppo, poi c’è stata una svolta molto drammatica.

Bacon: Penso che un aspetto importante fosse l’amicizia tra donne.

Murray: Abbiamo parlato davvero molto proprio dell’amicizia con Sosie perché il rapporto tra Leslie e Pat è importante per la storia e meraviglioso sotto certi aspetti, anche se poi le conduce su un sentiero così oscuro. Guinevere ha visto con chiarezza che Pat era per Leslie il motivo per cui è stata attirata, e poi è rimasta, nel mondo di Charles Manson. Non penso che queste donne fossero pazze perché si sono unite alla setta, il film mostra che era vista come un gruppo incredibile di cui volevi far parte e ognuna di loro era alla ricerca di una realtà in cui sentirsi accettata. Come esseri umani siamo alla ricerca proprio di questo e di amore, quindi ovviamente offriva degli aspetti positivi, altrimenti nessuno ne avrebbe fatto parte. Non si diceva ‘Ehi, volete diventare delle assassine, essere sfruttate sessualmente ed essere vittime di abusi?’! Ovviamente c’erano degli elementi in grado di attirare le persone.

Bacon: Credo che Pat fosse incredibilmente felice al ranch e fosse davvero innamorata di Charles Manson. È stato il suo primo fidanzato, il suo primo amore, una delle sue prime esperienze sessuali. Si sentiva un po’ outsider e voleva essere amata, quindi lì stava bene e per questo lo ha seguito così ciecamente mentre in prigione si è chiusa così tanto.

Il film è ambientato nel passato, eppure quel bisogno di appartenenza e di essere apprezzati è qualcosa di molto attuale, considerando anche l’importanza che hanno assunto i social media nella vita dei giovani…
Rendón: Penso che il film mostri chiaramente che quanto è accaduto sia stato un prodotto degli anni ’60: facevano parte di questa vita comunitaria, sperimentavano anche con le droghe ed era un’espansione di quello che stava accadendo in quell’epoca. Il lungometraggio affronta la mascolinità tossica, che ha ancora rilevanza nel presente, esiste ancora e ho apprezzato molto che dopo la première di ieri molte ragazze siano venute da noi per ringraziarci e dire che era molto importante mostrare questo elemento con chiarezza.

Bacon: Sui social media si dà molto spazio al desiderio di essere belli, di essere apprezzati e capiti. Si riceve quasi una dose di dopamina quando qualcuno apprezza quello che condividi ed è qualcosa che potrebbe portare a influenzare le persone.

Murray: Io non saprei che dire, non ho account sui social media!

Rendón: Hannah a mala pena usa il proprio telefono, è qualcuno davvero da ammirare!

Sareste state interessate a incontrare Manson se fosse stato ancora in vita quando stavate per girare il film?
Bacon: O mio dio, no! Non credo proprio.

Interpretare una storia vera vi ha creato qualche difficoltà in più rispetto ad altri progetti?
Murray: Ho interpretato una persona che esiste realmente in Detroit ed era sul set ogni giorno. Per me è stata un’esperienza incredibile perché, per quanto fossi felice di averla con noi, mi ha fatto capire che dovevo abbandonare totalmente l’idea di soddisfarla in qualche modo perché non aiuta a lavorare bene. Se avevo delle domande su ciò che provava il mio personaggio potevo sempre chiedere direttamente a lei. In questo caso, ovviamente, non abbiamo avuto modo di parlare con Leslie, Susan e Pat. È davvero strano interpretare una persona vera, ma alla fine devi non devi pensarci troppo.

Rendón: Devi mettere del tuo in modo tale da far immedesimare in qualche modo le persone…

Murray: Credo che esporre se stessi sia la cosa più interessante che si possa fare come attori. Quello che cerchiamo di fare con questo film è umanizzare queste donne e ritrarle come individui e proprio per questo penso che possa accadere solo se mettiamo nella performance qualcosa di personale.

Nelle scene con Merrit Wever, in cui ci sono queste conversazioni e reazioni oneste e naturali, c’è stato spazio per l’improvvisazione?
Rendón: Era tutto già presente nel copione. Siamo state davvero fedeli e abbiamo amato Guinevere e il suo lavoro.

Murray: C’è stata forse più improvvisazione nelle scene ambientate nel ranch perché c’erano molti più momenti di gruppo in cui potevamo trascorrere del tempo insieme. Tutte le sequenze in prigione, invece, sono le parole scritte da Guinevere.

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Il film affronta, in un certo senso, anche la fama perché Manson appare quasi come una celebrità che veniva ammirata e che riusciva a convincere gli altri. Quale rapporto avete personalmente con l’idea di essere una celebrità a livello internazionale?
Murray: Penso che nel caso di Manson si andasse oltre l’idea di fama perché c’era un aspetto “religioso” nel modo in cui si rappresentava e veniva considerato quasi simile a Gesù Cristo. Credo che, in alcuni modi, molte persone ora si siano allontanate dalla religione e l’abbiano sostituita con altri idoli e con la fama, la situazione è diventata più confusa. Manson, secondo me, stava cercando un significato più profondo nella vita che, anche se tutto quello che stava dicendo era folle e senza senso, ha portato queste ragazze, in particolare Leslie, a considerarlo davvero come Cristo. Non era solo una questione di immagine e di fama.

Rendón: Non mi ero resa conto di quanto la tossica relazione di Manson con l’ambizione avesse poi portato alla violenza. Non ho mai avuto un’esperienza personale con la fama, eppure penso che si possa perdere il contatto con l’umanità delle persone.

Come avete lavorato con Matt Smith e che tipo di atmosfera c’era sul set, considerando l’intensità di alcune delle scene?
Murray: Questa è la quarta volta che lavoro con lui e sono stata davvero felice quando ho scoperto che era stato scelto per il ruolo, essendo qualcuno con cui mi sento al sicuro nell’affrontare determinate scene. La sua performance è davvero all’insegna della trasformazione, ha un aspetto totalmente diverso e si è impegnato davvero moltissimo nella sua interpretazione. È stato davvero strano essere accanto a lui, onestamente, e assistere al suo andare così a fondo di un personaggio davvero terribile.

Rendón: Avevo appena lavorato con Matt in un altro film in cui abbiamo interpretato due amanti dal rapporto davvero strano, quindi è stata un’esperienza un po’ bizzarra interpretare un legame nuovamente molto particolare.

Hannah, il tuo rapporto con la fama e i fan è cambiato dopo il successo di Game of Thrones?
Murray: Penso sempre, facendo riferimento al mio lavoro con Game of Thrones, che non sono io a essere famosa, è lo show a esserlo e io ho avuto solo modo di farne parte. Per me è importante ricordarmi questa differenza. Si tratta di una serie in cui lavoro e per me la stessa idea di fama è surreale. Quando ero più giovane mi entusiasmavo se la mia città veniva citata nei notiziari perché mi sembrava quasi di essere a contatto con un qualche tipo di celebrità. L’idea che in qualche modo, come individuo, io possa essere considerata proprio una celebrità non trova realmente posto nella mia mente.

In che modo lavorare per delle serie tv di successo ha cambiato la vostra vita e carriera?
Bacon: Sicuramente dopo la seconda stagione di Tredici ci sono molte più persone che si avvicinano a me e mi chiedono una foto o un autografo. Apprezzo davvero i fan di quello show perché la maggior parte di loro è composta da ragazzi molto dolci che non provano un senso di appartenenza nei confronti dei contesti in cui si trovano e la serie li aiuta ad affrontare la situazione, o sono dei giovani ben integrati ma si sentono in segreto a disagio, o qualcosa di simile. Ho provato le stesse cose, sono stata una teenager e quindi i fan di Tredici sono incredibilmente dolci e sempre adorabili. Ti si avvicinano gentilmente per chiedere una foto e dimostrano il proprio entusiasmo, c’è chi si è messo a piangere… E questo nonostante sia poco presente negli episodi. Sono così adorabili e per questo sono disponibile nei loro confronti, rispondo sempre ‘Certo, facciamo una foto, un autografo. Sono a disposizione!’.

Rendón: È così entusiasmante trovarmi in Europa perché Imposters non ha avuto incredibili dati di ascolto negli Stati Uniti, mentre qui mi sembra che le persone con cui ho parlato, che fossero italiani o tedeschi o altro, siano più entusiasti della serie. È stato molto bello.

Come avete deciso di diventare attrici?
Rendón: Io ero una musicista prima di diventare un’attrice. Recitare per me è ancora qualcosa di nuovo e surreale. Ho iniziato a teatro e provengo dal mondo del teatro sperimentale, anche se penso che in fondo volessi sempre recitare in un film, specialmente in un progetto diretto da Mary Harron. Tutto per me è ancora nuovo ed entusiasmante.

Murray: Ho deciso di diventare un’attrice quando avevo undici anni ed ero davvero, davvero determinata e seria, pensavo ‘Quella sarà la mia carriera!’. Non avevo però idea di come sarebbe stato possibile e nessuno nella mia famiglia aveva dei contatti nel settore, quindi per me era quasi qualcosa di magico che le persone facevano in un altro universo. Ho fatto un’audizione per una serie chiamata Skins e sono andata pensando solo che sarebbe stata un’esperienza divertente, ma invece ho ottenuto la parte il giorno del mio diciassettesimo compleanno. Da lì la situazione ha continuato a evolversi e si è trattato di un primo lavoro davvero fantastico. Sono stata incredibilmente fortunata.

Bacon: Non pensavo di voler fare l’attrice nella mia vita fino a quando sono andata al college e non ho recitato per un po’ dopo le esperienze fatte al liceo. Mi sentivo davvero triste e mi sono resa conto che era realmente quello che volevo fare. Sono quindi andata a Los Angeles e ho iniziato a fare audizioni e cercare di lavorare.

Prima di arrivare sul set vi eravate già “conosciute” tra colleghe guardando le rispettive serie o film, senza sapere che avreste lavorato insieme?
Murray: Ho adorato guardare Imposters!

Rendón: Io avevo visto Tredici.

Bacon: Ho visto Hannah in Bridgend mentre stavamo girando e ho amato Detroit.

Rendón: Io ho adorato Bridgend e penso di averlo un po’ studiato mentre stavamo lavorando!

Molte attrici parlano di come sia difficile ottenere dei ruoli interessanti, soprattutto con il passare del tempo, che ne pensate?
Bacon: Non ho idea perché non ho nessun metro di paragone essendo ancora giovane però vieni rifiutata nove volte su dieci! Vai a tantissime audizioni e poi ottieni, se sei fortunata, una parte.

Rendón: È davvero complicato lavorare in questo settore, a ogni età.

Murray: Devi capire i progetti che vuoi realmente fare, che ti mettono alla prova e sono originali. Credo che comunque il settore stia cambiando e stia dando più importanza alle donne, offrendo ruoli più interessanti.

Rendón: Parlo per me, ovviamente, ma mi interessa sempre vedere attrici più anziane nei film perché hanno una grande esperienza ed è qualcosa di stimolante da vedere. Le storie che vogliono raccontare, inoltre, sono più interessanti.

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