Dopo un’accoglienza calorosissima ricevuta al Festival di Venezia, Sulla Mia Pelle di Alessio Cremonini approda domani su Netflix e nelle sale cinematografiche – per lo più indipendenti – di tutta Italia (qui l’elenco completo). Alla vigilia dell’uscita del film, che abbiamo recensito a Venezia, ecco la nostra intervista col protagonista Alessandro Borghi, che ci parla del suo commosso e rispettoso approccio nei confronti della controversa figura di Stefano Cucchi, cui ha dato corpo e anima nel film di Cremonini.

Il tuo corpo ha subito una trasformazione incredibile per diventare quello di Stefano Cucchi in Sulla Mia Pelle. Come hai lavorato per creare la tua versione di Stefano?

Stefano era alto un metro e sessantadue e pesava cinquantasei chili; io sono alto un metro e ottantasei e, per il film, ero arrivato a pesarne sessantadue. Proporzionalmente, ero più magro di lui; comunque, ero entrato in un loop pericoloso e, se non mi avessero fermato, sarei arrivato a pesare cinquantacinque chili. Non riuscivo nemmeno più ad alzarmi dal letto senza avere mal di testa, quindi mi sono detto: “Ok, ci devo mettere altre cose.” Uno degli elementi fondamentali per la scoperta, da parte mia, del personaggio di Stefano è stata la voce. Me ne ero fatto un’idea, ascoltando le registrazioni del processo; era però già debole, aveva già subito il pestaggio, quindi bisognava riportarla alla normalità precedente. Ilaria [Cucchi, sorella di Stefano, ndr] mi mandò quindi un video brevissimo, con l’audio che si sentiva a malapena, ma si potevano percepire due parole pronunciate da Stefano. Nel sentirle, mi è venuta la pelle d’oca, perché era esattamente la voce che avevo immaginato. È stato un momento magico. Ho fatto sentire il video tipo trenta volte alla mia fidanzata, che era accanto a me. È stato molto emozionante vedere come, senza avere un’esatta consapevolezza, mi fossi messo già sul binario giusto. Ho cominciato quindi a lavorare con il fisico, a rubare dalle piccole pillole amatoriali in cui si poteva vedere come Stefano si muovesse. Inoltre, lui apparteneva alla realtà della strada, che conosco molto bene. Ero molto spaventato all’idea di fare un’imitazione di Stefano, e non ero nella posizione di poterla fare, non essendo più lui tra noi. Quindi, era importante per me creare la mia idea del personaggio. Il primo giorno di set, tutti aspettavano di vedere cosa la mia mente avesse partorito: dopo il primo take, ricordo che Alessio Cremonini, il regista, e Olivia Musini, la produttrice, si sono tolti le cuffie e si sono affacciati dall’estremità del monitor guardandomi come per dire, “ma Alessandro dove l’abbiamo lasciato?”. Da lì è nata questa consapevolezza, mossa dalla felicità di aver raggiunto qualcosa senza neppure che io me ne rendessi completamente conto. In realtà, questo si è ripetuto per tutta la durata delle riprese: quella debolezza, la modulazione della voce, sono state conseguenza di un processo, perché durante la lavorazione ho continuato a dimagrire e, piano piano, sono diventato sempre più debole. Quando ho iniziato a rapportarmi strettamente col lettino, che è l’elemento cardine della seconda parte del film, c’è stata la necessità di lavorare solo a livello emotivo, per creare una condizione in cui la macchina da presa potesse inquadrarti e tu potessi anche stare fermo, ma dovessi comunque saper raccontare qualcosa.

Il tuo viso nel film è stravolto, sembra quasi che vi sia stato un intervento prostetico.

In questo, sono stati fondamentali i ragazzi del trucco; con Roberto Pastore, mio caro amico nonché uno dei truccatori più talentuosi che abbiamo, da far invidia agli americani, abbiamo provato mille cose. All’inizio si pensava di mettermi delle protesi per accentuare gli zigomi, ma alla luce del mio dimagrimento non ce n’è stato più bisogno. Per interpretare Stefano, inoltre, ho scurito il colore della mia iride, e togliendomi gli occhi chiari la mia faccia cambia completamente. Ricordo poi che, la prima volta che mi sono rasato tutta la barba, sembravo un alieno. Una volta stavamo girando vicino a Via dei Prati Fiscali a Roma, dove abitano due dei miei più cari amici. Non li vedevo da dieci giorni, e in quel lasso di tempo avevo perso tipo sei chili. Sono rimasti senza parole per mezz’ora, e poi uno di loro, Silvano, mi ha detto: “Alessandro, ti sei svuotato. È come se avessero preso tutto ciò che avevi dentro e te l’avessero levato.” Tutto questo ha creato un presupposto ideale per farmi stare tranquillo durante la lavorazione; è come arrivare sul set di un film in cui devi andare a cavallo. Se sei preparato a dovere su quel fronte, puoi evitare di pensarci e concentrarti sulla storia. È esattamente ciò che mi è successo, sentivo che il mio corpo ormai andava da solo, quindi dovevo solo cercare una misura per restituire un po’ di dignità a questo ragazzo, a cui è stata tolta molto tempo fa.

Il film è molto onesto nell’affrontare le ombre della vita di Stefano. Come hai affrontato la parte più oscura della sua personalità?

La parte oscura di Stefano è quella che io consideravo la sua routine. Trovo molto intelligente e sincera la scelta di raccontare questo lato, che tutto il mondo si aspettava di vedere perché, nel 2018, ancora viene chiamato criminale un ragazzino che si taglia due pezzi di fumo; Stefano, invece, aveva delle responsabilità piuttosto importanti e continuava a sbagliare pesantemente. Non ci sono dubbi: se non avesse avuto addosso quella droga, tutto questo non sarebbe iniziato. Io ho conosciuto tanta gente molto peggiore di Stefano Cucchi, te lo garantisco, ed è gente che, nel proprio relazionarsi col mondo esterno, essendo più o meno cattivi e più o meno intelligenti, ha un grandissimo lato umano. Come ho sempre detto, la vera natura degli esseri umani esce fuori nei momenti di difficoltà e quando sono costretti ad avere intimamente a che fare con loro stessi. Stefano aveva a che fare con se stesso intimamente da tanto tempo, l’eroina è qualcosa con cui non si scherza. Trovo molto bello il fatto che in Sulla Mia Pelle, quando viene comunicato a Ilaria che Stefano è stato arrestato, la prima cosa che chiede è se gli abbiano trovato eroina addosso. Quindi sì, c’è sicuramente una parte oscura, una parta che sbaglia e che sbaglia tanto. Meno male, perché è questo che ci rende umani. Soprattutto, il messaggio davvero importante dal mio punto di vista è che non esiste una condizione in cui a un essere umano possa essere negato il diritto di vivere, neppure se sei il peggior pezzo di merda di questo pianeta. Anzi, se fosse stato per me, l’avrei fatto più cattivo; se non si fosse trattato di una storia vera e avessi dovuto rappresentare un personaggio x, l’avrei fatto ancora più cattivo, per dire “guardate che pezzo di merda, e pensate: nonostante tutto, non lo potete ammazzare”.

A questo proposito, grazie proprio alla complessità del personaggio, è impossibile non empatizzare con lui.

Lotto tantissimo contro il concetto di giudizio, mi fa schifo da sempre. Ho avuto a che fare con tanta gente: persone che, vedendole camminare per strada, avresti identificato come criminali, e poi magari parlandoci avresti scoperto che si trattava di gente con sei figli a carico e senza un euro per fare la spesa. Solo noi conosciamo davvero la nostra storia personale, e l’obiettivo di Sulla Mia Pelle era fornire al pubblico una storia completamente esente dal giudizio. Dà allo spettatore tutti gli strumenti per farsi una propria idea. Mi fa un po’ ridere il fatto che l’Arma dei Carabinieri si sia arrabbiata, che si sia sentita chiamata in causa. Noi parliamo delle persone che hanno pestato Stefano Cucchi, che in quel momento indossavano una divisa, ma che avrebbero potuto essere vestiti da spauracchi per quel che mi riguarda; il fatto che si sentano chiamati in causa equivale a dire che stanno prendendo le parti di qualcuno che ha commesso un delitto. È come se io ti dicessi: “Lo sai che a uccidere quel ragazzo sono stati dei giornalisti?” e tu ti sentissi chiamata in causa. Qui c’è un bel tassello d’intelligenza che manca. Noi non pensiamo che Stefano sia morto cadendo dalle scale, altrimenti non avremmo fatto il film; pensiamo che ci siano delle responsabilità da parte di esseri umani, non di gente che porta una specifica divisa.

Il film mantiene la stessa onestà anche nei confronti dei familiari di Stefano, evitando di essere troppo tenero. Come ti sei rapportato alla famiglia Cucchi?

C’è una battuta che può far arrabbiare un po’ tutti, quando il padre dice “Stefano le ha prese da un altro detenuto”; se ci pensi, è una frase forte ma molto bella, perché serve a raccontare una famiglia che crede nelle autorità e che, quindi, dà per scontato che non possano essere stati i carabinieri a pestare il figlio. Comunque, il mio rapporto con la famiglia Cucchi si è limitato principalmente a Ilaria; ho fatto fatica a guardare negli occhi i genitori di Stefano, due persone molto riservate che vivono il dolore nell’ombra del loro dramma, a differenza di Ilaria che invece ha dovuto prendere in mano la situazione e intraprendere una vera battaglia. È stato molto più semplice rapportarmi con lei piuttosto che osservare da lontano i genitori di Stefano e dir loro, con una paura fottuta, “sapete, io interpreterò vostro figlio”. Ilaria è una persona particolare e meravigliosa, mi presenta dicendo “lui è mio fratello”; è una sensazione stupenda, ma che ogni volta mi fa perdere cinque anni di vita! Durante le riprese di Sulla Mia Pelle, io e Ilaria ci siamo allontanati perché avevo bisogno di prendere le distanze emotivamente per evitare di fare il “film di Alessandro” e raccontare la storia di Stefano. Avendo delle idee abbastanza precise su questa vicenda, ho preferito tenerle fuori dal racconto e fare in modo che ciascuno spettatore potesse farsi una propria idea personale.

C’è una scena molto emozionante, nella seconda parte del film, in cui ti scende una lacrima: improvvisazione o scelta consapevole?

Quello era il primo take. Non era calcolato, e ti dirò di più. Alessio mi disse: “In questa scena non dobbiamo piangere, altrimenti diventiamo retorici. Mi raccomando.” Mentre giravo la scena, però, mi è venuto da piangere e, per la posizione sdraiata che avevo, la lacrima si ferma sul naso. Alessio mi ha detto, “è bellissima, ma poi vediamo”. Quando ho rivisto la scena in montaggio, gli ho detto: “Alessio, se non montiamo questa scena siamo degli scemi, perché qui è successo qualcosa di irripetibile.” Gli ho detto anche: “Ti devi togliere questa paura di essere retorico, perché il film è talmente rigoroso, crudo, quadrato, che questo rischio non c’è mai.” Sembra un film tedesco, non c’è un vezzo di regia, è sempre minimale. Quella lacrima è stata una delle cose più belle che sono successe sul set.

 

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