La Sicilia di Piazza e Grassadonia è l’unica in cui può davvero succedere di tutto, per questo è così frustrante veder accadre così poco.
Nei boschi di Sicilian Ghost Story, nelle sue prospettive deformate dal grandangolo e in quegli squarci da fiaba sembra davvero che qualsiasi svolta non stoni. Anche solo avendo visto l’inizio con due ragazzi che si inseguono per gioco, poi sopraggiunti da un cane il cui abbaio è squassante ed esagerato, tanto da sembrare uno sparo, si capisce che non ci troviamo nella Sicilia filmica che conosciamo, ma in una come il cinema non ne ha mai conosciute, una che a tratti sembra Norvegia e ad altri invece sembra un paesaggio notturno di Jean Pierre Jeunet.

Sciolte le briglie a Luca Bigazzi (secondo immenso direttore della fotografia con cui i due registi collaborano dopo Daniele Ciprì nel precedente Salvo) Sicilian Ghost Story vanta un look e una marca visiva che salvano in più momenti l’equilibrio da una recitazione terribile che invece lo affossa. Quest...