Di registi in crisi, con poche idee e poca voglia di fare film se ne sono visti tantissimi nella storia del cinema. Periodi bui non all’altezza dei fasti, crisi creative e gorghi di depressione non sono nuovi e ci si è sempre passati sopra con affetto in virtù dei film andati. Ma The House That Jack Built commette l’unico vero crimine imperdonabile essere così apologetico verso la propria stessa crisi creativa da risultare, oltre che noioso, anche infantile.

Nella storia di un serial killer che uccide le sue vittime senza nessun timore della legge o di essere catturato e poi le congela e impaglia, le fotografa in quadretti kitsch e cerca di fare dell’arte dai suoi omicidi, c’è la più scontata delle metafore dell’artista, costretto a lavorare con cadaveri (gli attori), in perenne dolore da creazione e incapace di vivere senza fare arte/uccidere. La coincidenza del verbo shoot che significa sparare/riprende immagini poi non la si cita nemmeno per raggiunti limiti di ripetizione.

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