In It Must Be Heaven Elia Suleiman è Elia Suleiman in giro per il mondo. Prima a Nazareth poi a Parigi e poi a New York, errante in cerca di patria, osservatore muto come una dolce figura da cinema comico d’altri tempi (più che Chaplin il riferimento è Tati, con il quale ha in comune la visione ridicola e bambinesca della tecnologia). Non è il massimo, tuttavia è evidente che lo sguardo di Suleiman è allenatissimo. Se la decisione puerile di mettersi in un ruolo dolce e umano è criticabile (si fa definire da un personaggio che lo intervista un perfetto straniero, un cittadino del mondo nomadico), meno lo sono le immagini che riesce a generare e l’uso che è in grado di fare di un’ironia forte che è solo visiva e mai di parola (tranne un dialogo esilarante con Gael Garcia Bernal).
Certo gioca moltissimo con gli stereotipi nazionali, con quello che già sappiamo e che sempre si dice dei paesi che visita (la grandeur francese e le donne, le armi e le ossessioni di fitness e perbenismo in Am...
Esule ovunque vada, condannato a vedere la sua patria in altre città, It Must Be Heaven ha un po' di narcisismo del suo autore ma anche un umorimo per immagini fantastico
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