Una psicoterapetua vuole tornare a fare la sceneggiatrice. Così si apre Sibyl, il film di Justine Triet che imbastisce la storia della sua protagonista tra pazienti da lasciare e intrecci da scrivere, ma ha l’unico obiettivo di correre il prima possibile verso l’unico luogo e momento che sembra premergli davvero: il set. C’è infatti un’attrice tra le sue clienti che lei non si sente di lasciare perché vive un momento difficile, è rimasta incinta per errore e forse vuole abortire. Gli eventi precipiteranno così tanto che lei avrà una crisi sul set del film che sta girando e sarà necessario l’arrivo della psicologa in loco per aiutarla.
Così se all’inizio l’idea è che “rubare” le storie e le vite dei pazienti per farne finzione è un processo che risveglia ricordi e fantasmi interiori della protagonista (che vediamo in flashback), dopo diventa che il set è il cuore dell’emotività umana.
Così se all’inizio l’idea è che “rubare” le storie e le vite dei pazienti per farne finzione è un processo che risveglia ricordi e fantasmi interiori della protagonista (che vediamo in flashback), dopo diventa che il set è il cuore dell’emotività umana.
Come fosse il nocciolo dei sentimenti, una supernova di pura umanità una volta entrati nella cui orbita...
Annaspando tra metafore scontate e allegorie abusate Sibyl cerca di celebrare il set ma non è capace di coinvolgere il pubblico in quest'amore
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