Un filmaccio di serie B dai valori produttivi sotto le scarpe come è Incarnate, ha il dovere morale di guadagnarsi un senso (nonchè i soldi del biglietto), giocando sulla propria libertà espressiva, cambiando un po’ le carte in tavola, prendendosi dei rischi e cercando di reimmaginare il classico. Che poi è la carta che gioca ogni volta, e con successo, la Blumhouse.
Condannato a partire da presupposti abbastanza noti e certi (glielo impone il genere e le sue dinamiche di attrazione del pubblico), un B movie come Incarnate dovrebbe liberarsi ben presto dalle sue catene e usare la gabbia di una trama convenzionale per mille piccole variazioni o, se non altro, per trovare una goduria e una comunione con un pubblico inevitabilmente affiancato ai propri gusti. Incarnate invece è un continuo inciampo in ognuna di queste regole non scritte.

L’unica idea del duo Ronnie Christensen (alla sceneggiatura, una garanzia della serie Z, il cui ultimo film era un “thriller di tette” di 4 anni fa con <...