Non ci sono dubbi che in Riccardo Va All’Inferno la visione sia quella buona. La maniera in cui Roberta Torre immagina un piccolo mondo urbanissimo (il quartiere Tiburtino Terzo di Roma) tra sotterranei analogici in cui si muovono esseri dalle sembianze inquietanti di Jean-Pierre Jeunet, e una superficie per bene e grottescamente opulenta da Tim Burton, tutto reso tramite soluzioni visive anni ‘90 (come i colori fluo sparati o gli occhialetti e i vari dettagli di trucco e parrucco), è efficace. Un universo di cattivo gusto così coerente e ben pensato da dare l’impressione di essere il suo contrario. Addirittura questa visione si sposa pure bene con i presupposti della trama, cioè la cattiveria delle élite, l’infamia dei reietti e l’innocenza da corrompere.

Questo svolgimento da Tim Burton, asciugato dal romanticismo e dalla poesia, però sembra non essere mai supportato da un vero svolgimento. Ben presto si comincia ad avere l’impressione che Riccardo Va All’Inferno esista per raccontar...