Sulla carta Girlboss aveva delle ottime potenzialità: una protagonista talentuosa come Britt Robertson, una storia vera in grado di sfiorare tematiche interessanti come la creazione di un business senza alcuna conoscenza imprenditoriale, un’ambientazione di fascino come quella del mondo della moda e un team creativo di ottimo livello. Il risultato ottenuto dai tredici episodi è però piuttosto deludente e discontinuo a causa della scelta di non seguire una narrazione lineare proponendo invece racconti in stile aneddoti, coprendo il periodo, in realtà piuttosto lungo, che conduce la giovane Sophia a fondare il sito dedicato alla vendita di abiti vintage chiamato Nasty Gal.
Partendo dal libro autobiografico scritto da Sophia Amoruso, la comedy creata da Kay Cannon segue quello che accade alla ventenne che, a causa di un carattere ribelle e poco incline a seguire le regole, continua a farsi licenziare dai vari datori di lavoro. A farle intravedere una possibile svolta nel futuro è però la consapevolezza di saper riconoscere il valore degli abiti vintage, riuscendo ad acquistare una giacca degli anni ’70 in pelle a soli nove dollari e rivendendola a oltre seicento. Il primo successo “commerciale” le dà quindi l’idea di usare eBay per sostenersi economicamente, ma non tutto sarà semplice considerando inoltre la totale mancanza di preparazione in campo economico e organizzativo della ragazza.
Fanno parte della vita di Sophia anche la sua migliore amica Annie (Ellie Reed), che ha una relazione con il barista Dax (Alphonso McAuley), e il musicista Shane (Johnny Simmons) con cui inizia una storia d’amore. Il rapporto con il padre Jay (Dean Norris) appare invece complicato e all’insegna dell’incapacità di dialogare.

Dopo i primi quattro episodi (qui la recensione), si approfondisce maggiormente il rapporto tra Sophia ed Annie, rivelandone il passato e le tensioni causate dall’incapacità della protagonista di capire quanto i suoi comportamenti, piuttosto superficiali e istintivi, possano ferire chi è intorno a lei. Lo stesso accade con Shane che lavora per una band musicale con cui va in tour, mostrando la coppia a Los Angeles dove si incontrano dopo essere stati a lungo distanti, e di nuovo a San Francisco, situazione in cui sembrano momentaneamente svanire tensioni e incomprensioni.
Nel mondo di Sophia, inoltre, entra a sorpresa una sua “rivale”, Gail (Melanie Lynskey) dall’approccio molto diverso al mondo del vintage. Il rapporto, potenzialmente quasi di amicizia, viene però ancora una volta minato dalla mancanza di empatia della ventenne.
Tra ostacoli personali, tra cui un necessario viaggio alla ricerca di una persona importante per il proprio passato e un’inaspettata svolta sentimentale, Sophia continuerà a gettare le basi per quello che pensa possa rappresentare la sua possibilità di iniziare una nuova vita.
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Britt Robertson dimostra grande bravura nell’interpretare gli aspetti vulnerabili e quelli più sopra le righe del suo personaggio, riuscendo a rendere credibili i continui sbalzi di umore di Sophia. I momenti in cui la ragazza cerca di riallacciare un rapporto con la madre, che si è allontanata dalla famiglia anni prima, e con il padre sono emotivamente ben calibrati grazie al talento dell’attrice. Il problema principale è però la mancanza di una vera evoluzione del personaggio nel corso delle tredici puntate. Sophia sembra incapace di imparare dai suoi errori, continuando a ripeterli più e più volte e alternando fasi di incredibile sicurezza, ben oltre il limite della sfrontatezza, a fragilità, elemento che aiuta parzialmente a superare i limiti di un ritratto negativo non sempre equilibrato dalla positività rappresentata dal coraggio di seguire un proprio sogno con determinazione nonostante le avversità. Difficile però, nonostante la simpatia e la bravura della Robertson, apprezzare realmente un personaggio che non appare nemmeno come un’anti-eroina ma semplicemente come qualcuno che non sa attribuire il giusto valore all’amicizia, al lavoro e alla famiglia, rendendosi conto solo di fronte alla possibilità di rimanere sola quello che potrebbe perdere. La rappresentazione del personaggio è talmente frammentata e con cambiamenti assenti già nella puntata successiva alla loro introduzione che diventa quasi complicato spiegarsi perché qualcuno dovrebbe continuare a starle accanto e sostenerla o persino ridere delle sue disavventure. I passaggi più divertenti e originali diventano così quelli in cui Sophia viene messa maggiormente in secondo piano, ad esempio quando il forum degli esperti vintage deve capire come comportarsi nei suoi confronti, o le puntate in cui si abbandona temporaneamente l’approccio leggero alla narrazione per concentrarsi invece sulle emozioni, tra cui il season finale in cui la realtà bussa inesorabile alle porte proprio nel momento più inaspettato. Britt in quei passaggi, così ricchi di emozioni contrastanti, dà davvero il suo meglio facendo quasi dimenticare che Girlboss sembra sempre sul punto di trovare una propria identità e muoversi in una direzione finalmente precisa, senza mai riuscirci.

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Lo spazio dato ad attori di qualità come Dean Norris, Jim Nash e RuPaul è inoltre eccessivamente limitato, concedendo agli spettatori solo il tempo di apprezzare la loro presenza ma senza poter approfondire i personaggi interpretati. La situazione è parzialmente più attenta nel caso di Melanie Lynskey che riesce a non scivolare nello stereotipo della giovane ossessionata dagli abiti del passato attribuendo al personaggio qualche sfumatura interessante e molto ironica, pur mantenendo una sensibilità che non la fa rientrare nella figura di una vera e propria villain, nonostante un momento di tagliente cattiveria. La figura di Shane non viene approfondita nella seconda metà della prima stagione e presenze come il collega di Sophia o il rapporto nato con il proprietario del negozio di abiti usati e con uno degli studenti finiscono, purtroppo, per fare da semplice contorno agli eventi.
Ellie Reed, con la sua Annie, appare infine come la presenza più curata e interessante, mostrandone la razionalità nel voler avere delle certezze economiche e il legame affettivo che prova nei confronti di Sophia, la sua esuberanza ma anche la dolcezza. L’attrice cambia con bravura il registro nel corso degli episodi della prima stagione, spaziando tra la comicità e la leggerezza alla sofferenza e alla profondità, sempre apparendo credibile e misurata.

La visione degli episodi risulta ugualmente piacevole, grazie a una buona regia e l’ottimo uso della colonna sonora e della fotografia, tuttavia tra i tanti progetti di altissimo livello proposti da Netflix negli ultimi anni, questa comedy a tinte quasi ciniche appare tra le meno riuscite e curate e, pur essendoci degli spunti interessanti, ci si trova di fronte a uno dei pochi casi in cui non si sente un particolare bisogno di assistere a una continuazione della storia pur sapendo che la vita di Sophia Amoruso è stata contraddistinta da interessanti alti e bassi e da situazioni piuttosto controverse, a livello personale e soprattutto professionale.
A differenza di altri show proposti dalla piattaforma, Girlboss potrebbe tuttavia trarre beneficio da una visione delle puntate a distanza di tempo una dall’altra, avvicinandosi così agli eventi con un approccio che non enfatizzi l’eccessiva frammentarietà e discontinuità del progetto.

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