Ogni 27 anni circa, It si risveglia dal suo sonno per nutrirsi di bambini innocenti e spargere morte nella cittadina di Derry. Ed è lo stesso intervallo di tempo che separa la miniserie del 1990 dalla nuova versione di uno dei romanzi più apprezzati di Stephen King. In modo molto significativo, il tema centrale di quel grande romanzo di formazione che è It ruota intorno al tema della nostalgia, una sorta di Stand by Me in cui il mostro è sovrannaturale. E la nostalgia, arma a doppio taglio, è anche il sentimento che più viene suscitato ripensando all’adattamento in due parti diretto da Tommy Lee Wallace (in un primo momento doveva dirigerlo George Romero), e andato in onda sulla ABC.

Che fosse in VHS o trasmesso in due serate su Canale 5, It è diventato il simbolo di qualcosa di perduto e lontano. Forse la controparte horror dei cartoni più rilassanti, magari un episodio più lungo di “Hai paura del buio?”, il prodotto che si poteva vedere aprendo uno spiraglio tra le mani che coprivano il volto, forti della convinzione che sarebbe stato l’oggetto delle conversazioni l’indomani a scuola. Qualunque prodotto che abbia la forza di imporsi sull’immaginario collettivo deve parlare un qualche linguaggio segreto, al di là dei suoi demeriti – ci stiamo arrivando – o meriti, una lingua che forse può essere compresa solo dai bambini e che crescendo si dimentica (ancora una volta, il romanzo It parla esattamente di questo).

Ciò che colpisce oggi rivedendo quelle tre ore di televisione, è la forte discrepanza tra la parte dedicata ai ragazzini e quella che vede protagonisti gli adulti che tornano a Derry. In questo lo show tende a replicare in qualche modo la struttura dell’opera originale, sfruttando la reunion dei “perdenti” per volare nel passato tramite flashback e raccontare il punto di vista di ognuno di loro sulla storia. Ecco quindi che conosciamo Bill, Beverly e tutti gli altri. Nei momenti migliori della miniserie è piacevole passare del tempo con loro, e la vicenda riesce a restituire quel mood anni ’80 – anche se l’ambientazione è quella degli anni ’60 – che ormai è diventato un marchio di fabbrica di ogni prodotto nostalgico, da Stranger Things a quest’ultimo It, che non a caso ha spostato decenni avanti nel tempo l’ambientazione.

La recitazione dei giovani attori è buona, sicuramente più convinta e devota di quella del gruppo di adulti. Aiuta il fatto che certe situazioni orrorifiche funzionano meglio nel momento in cui sono proiettate su dei bambini (la scena della doccia), mentre rischiano l’involontariamente ridicolo quando ne sono oggetto gli adulti (la scena di Richie e dei palloncini). Nel cast dei giovani spiccano lo sfortunato Jonathan Brandis e Seth Green, mentre i volti più noti tra gli adulti sono John Ritter e Annette O’Toole. All’epoca l’elenco delle opere del Re trasposte in tv era molto breve, appena la versione di Salem’s Lot di Tobe Hooper. L’esplosione sarebbe arrivata in seguito, forse proprio sulla scia del primo It, con L’ombra dello scorpione, lo Shining anti-Kubrick e innumerevoli altre.

Tra tutti questi prodotti televisivi It è stato quello che ha avuto la capacità di imporsi maggiormente nell’immaginario collettivo. Difficile rintracciare particolari meriti registici o di scrittura in questo, anzi. Salvo una certa scena con un album di fotografie, la narrazione non è ispirata né affascinante né particolarmente coinvolgente, e per motivi sopracitati la storia perde di forza andando avanti. Soprattutto, a meno di non guardarlo con il filtro dell’infanzia, non fa paura. E non è detto che debba farne, dato che non è il “salto sulla sedia” a rendere degno un horror, soprattutto uno atipico come questo, ma qui più volte si ha la sensazione di un risultato cercato ma non ottenuto.

Il Pennywise di Tim Curry (lui sì molto devoto al ruolo, anche nelle pause sul set), che qui tornava a mascherarsi pesantemente in un ruolo dopo Legend, in tutto questo è l’unico elemento memorabile. Rappresenta il clown inopportuno, ridicolo, battutista, che non cade nella trappola di diventare la versione orrorifica di uno spauracchio dell’infanzia, ma solo la caricatura estrema e assurda che può dare corpo – e denti affilati – ad un timore altrimenti inesprimibile.