Trasmessa su FX dal 2010 per due stagioni e appena dieci episodi complessivi, The Booth at the End ripropone secondo una chiave nuova, giocando molto sull’ambientazione, il classico patto faustiano. Un uomo di cui non conosciamo il nome trascorre le sue giornate presso una tavola calda, sempre allo stesso posto. Da lui si recano persone di ogni tipo con le richieste più disparate. C’è chi desidera ritrovare il figlio, chi vuole che il partner guarisca da una malattia, chi vuole migliorare l’aspetto fisico, chi desidera conquistare una donna. L’uomo senza nome apre un taccuino, e qui legge la condizione da eseguire per far avverare il desiderio. Nessun obbligo, nessun trucco, se non il dover accettare un compromesso alle volte troppo pesante per la coscienza.

The Booth at the End è una serie che colpisce su più livelli, a partire dall’approccio. Il soggetto alla base, che ripropone il classico patto faustiano già visto mille volte (c’è anche qualcosa di Cose Preziose nel modo moderno in cui viene trattata la compravendita) non viene modificato o rivoluzionato. Anzi, è tutto molto canonico da questo punto di vista. Addirittura l’ambientazione e la messa in scena lavorano in sottrazione. Ci troviamo in uno spazio unico che non abbandoniamo mai, nessun gesto è eccessivo, nulla di straordinario o determinante accade mai di fronte allo schermo. Eppure, e qui è la forza dello show, proprio in questa intimità si riesce a scavare una nicchia di emozioni e caratterizzazioni che diventano protagoniste assolute.

L’intera serie verte sulla forza dei dialoghi, sulla ripetizione ossessiva di risposte emotive o narrative, sul lento lasciarsi sedurre dagli eccessi fino a perdere quasi contatto con l’obiettivo originale. Il creatore Christopher Kubasik è riuscito ad infondere grande costanza e coerenza interna ad una storia nella quale il rispetto delle regole e la capacità di rimanere fedele a se stessa è tutto. Ogni piccolo dialogo gioca sul sottile piacere della consapevolezza del percorso quasi sempre negativo intrapreso dai protagonisti, ma anche sul piacere della scoperta di quel che è accaduto negli intervalli tra un dialogo e l’altro. Quel personaggio sarà andato davvero fino in fondo? Lo scopriremo per bocca sua al momento della confessione all’uomo del taccuino.

La scrittura dello show viene necessariamente a patti con tutto ciò. È molto descrittiva e, con la nostra immaginazione, saremo capaci di far materializzare di fronte ai nostri occhi ciò che viene raccontato, mentre la tavola calda sparirà sullo sfondo e rimarranno solo i dialoghi. Un’esperienza simile alla lettura di un romanzo. Giocare su un approccio di questo tipo – che sarebbe perfettamente comprensibile anche solo come esperienza uditiva – è qualcosa di molto particolare per un medium come la tv.

Da citare l’interpretazione misurata, ma estremamente magnetica, di Xander Berkeley, nei panni dell’uomo senza nome. Nelle sfumature di una caratterizzazione non del tutto compiuta, ma affascinante proprio per questo, che ci racconta di un personaggio che forse è una vittima tanto quanto gli altri, la serie compie un ulteriore passo in avanti. L’intreccio si fa più complesso nel corso degli episodi, anche se l’interruzione dello show non ha permesso di sperimentare ancor di più.