Cowboy Bebop – The Movie vivrà una nuova release nelle sale italiane il prossimo 2,3 e 4 marzo (qui il trailer dell’evento). In attesa di rivedere il film d’animazione del 2001 diretto da Shinichiro Watanabe, ricordiamo l’indimenticabile serie del 1998 da cui partì tutto.

Il capolavoro seriale di Shinichiro Watanabe arriva in un anno felicissimo per l’animazione giapponese. Tra il cyberpunk allucinato di Serial Experiment Lain, il western fantascientifico di Trigun, il thriller opprimente di Perfect Blue, primo lungometraggio dell’indimenticato Satoshi Kon, la serie prodotta dallo studio Sunrise svetta come un gigante. Cowboy Bebop non è solo, insieme a Neon Genesis Evangelion, una delle migliori serie animate degli anni ’90, ma anche uno dei più alti punti di riferimento nell’animazione seriale. Lo è in una indecifrabile e originale combinazione di generi che vengono continuamente parodiati, omaggiati e rielaborati, in uno stile capace di passare da momenti scanzonati e irresistibili a vette drammatiche, nella cura per i caratteri e in quella che probabilmente è la migliore soundtrack mai creata per una serie anime.

L’anno è il 2071. Watanabe proietta la nuova frontiera dell’umanità dalle parti dei satelliti di Giove. Lo fa dopo che, nel 2022, un incidente con un portale spaziale ha danneggiato profondamente la superficie della Terra, spingendo i suoi abitanti a colonizzare i mondi più ospitali del sistema solare. In questa umanità alla deriva che affronta quindi un nuovo momento di scoperta ed esplorazione, rivivono – e questa è solo una delle contaminazioni – i miti e le figure del west, e tra queste spiccano quelle dei cacciatori di taglie. Quella narrata nei 26 episodi, e nel film del 2001, è la storia della Bebop e del suo equipaggio di “cowboy”: il tormentato protagonista Spike Spiegel, il suo socio Jet Black, la sensuale e pericolosa Faye Valentine e la giovane hacker Ed.

I caratteri di Cowboy Bebop sono tipici, gli elementi dei generi sono tutti già visti, il soggetto stesso è classico, ma è la loro combinazione a rendere memorabile la vicenda. Una storia che, esclusi pochi segmenti inseriti negli snodi fondamentali della vicenda, in realtà procederà in modo molto episodico, con poche concessioni alla continuity. Qualcuno li potrebbe definire, impropriamente, filler, ma la verità è che stiamo parlando di una serie che lavora sui personaggi, e non tramite questi. C’è tensione, empatia e curiosità verso i caratteri, e c’è molta più sperimentazione in questo coraggioso e tutt’altro che scontato sguardo orientale a generi tipici della tradizione occidentale di quanto potrebbe sembrare ad un primo sguardo.

Come Trigun, dello stesso anno, c’è innanzittutto la combinazione tra western – meno marcato rispetto alla serie citata – e fantascienza. Ma più forti saranno i richiami agli antieroi maledetti e tormentati del genere noir. E se lo Spike di Cowboy Bebop vive un’incertezza che è lontana dai tormenti nascosti di un altro famoso “cacciatore” della fantascienza-noir, quello di Blade Runner, è difficile non vedere in lui i tratti classici del genere: un passato da cui fuggire, una donna mai dimenticata, un confronto a lungo rimandato e una sigaretta senza la quale è difficile immaginare il personaggio. E la stessa Faye non è altro che una femme fatale sui generis, modellata sulla Fujiko di Lupin III, un’altra serie alla quale Cowboy Bebop deve parecchio.

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Parodia, omaggio e rielaborazione di generi abbiamo detto. La prima, sempre presente – l’anime tra le altre cose è anche una sgangherata avventura spaziale – e ben rappresentata dall’episodio Toys in the Attic, che cita palesemente Alien con esiti esilaranti. La seconda, meglio riferita al genere action, ha nella splendida Ballad of the Fallen Angels uno dei suoi momenti più alti, con i richiami al cinema di John Woo. La terza, in quello che è in fondo il malinconico congedo della serie, che ormai forte del suo successo e della sua riconoscibilità omaggia se stessa, nel bellissimo film d’animazione Cowboy Bebop – The Movie, variazione sull’action. È difficile elencare qui tutte le citazioni e i riferimenti contenuti nella serie, da 2001 – Odissea nello Spazio al cinema di Godard ad altri ancora.

Ma in fondo tutto il progetto non è altro che una costante rielaborazione di qualcosa in chiave originale. E ci voleva tutta l’incoscienza di un collettivo di artisti formato dall’autore Watanabe, dalla musicista Yoko Kanno e dal designer Toshihiro Kawamoto (oggi presidente dello studio Bones, uno che aveva lavorato sulle serie OAV di Gundam, per capirci) per tirar fuori qualcosa del genere. I primi due avevano già lavorato assieme nel 1996 per I cieli di Escaflowne, che già da parte sua fondeva il mecha con il fantasy, ma è qui che la creatività di scatena con forza, creando un legame indissolubile e fondamentale tra immagini, storia e musica.

Tra le altre cose si può infatti immaginare Cowboy Bebop come un’instancabile jam session che spazia tra un numero impressionante di generi di storia (noir, western, fantascienza, pulp, action) e musica (jazz, blues, folk, rock) che si adattano vicendevolmente l’uno all’altro, creando un’alchimia irripetuta nella storia degli anime, qualcosa che, restando in tema, potremmo definire un remix. La ricchissima ed eclettica soundtrack (una su tutte, la traccia “Go Go Cactus Man” che riprende lo stile degli spaghetti western) di Yoko Kanno, che per l’occasione ha anche creato il gruppo musicale The Seatbelts, è semplicemente straordinaria, ed è impossibile immaginare il successo e la forza narrativa di Cowboy Bebop senza questa. Note a margine: gli episodi stessi, che hanno quasi sempre il nome di una celebre canzone, vengono denominati anche dal numero della “sessione”.

Cowboy Bebop è un anime di confine e di rottura, che irrompe in un momento in cui l’animazione orientale non era così accessibile dall’occidente come può esserlo oggi, quando è possibile scegliere indiscriminatamente cosa guardare e cosa no. D’altra parte siamo alle soglie di un profondo cambiamento, e la serie di Watanabe è determinante nel rendere gli anime un prodotto più “universale” e meno radicato nella cultura giapponese. Hanno influito i generi a noi più familiari sicuramente, ma anche la capacità di raccontare tensioni percepibili, con le quali era possibile relazionarsi immediatamente e dalle quali si poteva ripartire per costruire qualcosa di nuovo (il Firefly di Joss Whedon deve senza dubbio più di qualcosa a questa serie).

Al di là dei suoi momenti più scanzonati, Cowboy Bebop è una serie sul percorso di alcuni disadattati, antieroi che vivono ai margini e che, come la serie che li racconta, cercano di trovare una loro identità in un universo sempre più grande e spiazzante, verso un finale indimenticabile e di grande intensità. Il resto è malinconia, tormento e senso di colpa, raccontate con una fusione poche volte replicata tra racconto, linguaggio delle immagini e musica. Un’idea ben riassunta da una delle scene più indimenticabili della serie, quella tratta dal quinto episodio Ballad of the Fallen Angels in cui, sulle note di Green Bird, in un momento di azione concitata eplodono una serie di ricordi.

See you space cowboy…