Nel momento in cui scriviamo questo pezzo la sorte di Halt and Catch Fire è appesa a un filo. Gli ascolti impietosi della prima stagione si sono trasformati in una condanna settimanale per il period drama ideato da Christopher Cantwell e Christopher C. Rogers. Numeri inversamente proporzionali alla qualità della serie, che invece è cresciuta e maturata, sostenuta da un grande cast e da una visione d’epoca tutt’altro che scontata. Personaggi schiacciati dal loro ingombrante ego, che aspirano a diventare grandi, a poter dire qualcosa all’interno della rivoluzione informatica degli anni ’80. Uomini e donne che, come in Mad Men, in onda sempre sulla AMC, manipolano loro stessi nel raggiungimento di un ideale inafferrabile. L’idea di felicità come trappola di chi riesce a vivere solo nel rischio e nella sperimentazione continua.

Un po’ come la serie in questione, che di certezze non ne ha mai avute più di tante. Un finale di prima stagione che avrebbe potuto chiudere il discorso con il falò liberatorio di Joe McMillan (Lee Pace) e che invece ha avuto un seguito, culminato in una migrazione di massa verso la California in cui Gordon e Donna Clark (Scoot McNairy e Kerry Bishé) e Cameron Howe (Mackenzie Davis) si ritroveranno ad affrontare nuove sfide professionali e umane. Li seguiremo, o il loro è un viaggio più ideale, in cui l’importante è sapere che dovranno comunque andare avanti, perché una destinazione in realtà non esiste? Non è dato saperlo al momento. Sappiamo che Kerry Bishé si è unita al cast di Billions di Showtime, ma questo non dovrebbe essere troppo indicativo di un proseguimento o meno della serie.

In venti episodi Halt and Catch Fire ha raccontato molto. Molto del suo periodo storico, ancora di più – e questo è veramente importante – dei suoi personaggi. È il periodo della commercializzazione dei Mac, delle prime chat room e della corsa, quella mai terminata, alla miglior performance. Mai terminata perché si tratta di un gioco a somma zero, perché non si finisce mai di spingere il limite un passo più in là, perché si può scagliare una freccia e farla andare avanti finché non incontra un ostacolo, quindi salire su quell’ostacolo e scagliare ancora e ancora. Gordon e gli altri in volo verso San Francisco, ma questa è l’unica destinazione che potranno mai raggiungere.

È l’american way of life che narrava Mad Men, che nell’ultima stagione introduceva anche un principio di rivoluzione informatica – era l’episodio Monolith, che tra le altre cose omaggiava anche 2001: Odissea nello spazio – a ulteriore conferma di quella “end of an era” che era la tagline dell’ultima annata. Solo aggiornata a nuovi messaggi, nuovi contesti appena una quindicina di anni dopo. Sembra passato un secolo, la distanza nei costumi è abissale, la figura di Cameron è davvero diversa da Peggy, eppure la sovrastruttura che muove l’agire delle persone è sempre la stessa. Joe è un inarrestabile e sofferente Don, condannato all’infelicità dai giudizi impietosi degli altri – traditore, venduto e approfittatore verrà definito – e da se stesso, dall’autoconvincimento che la ricchezza, il riconoscimento sociale, la semplice adesione a quel ruolo che qualcuno ha scelto per lui lo renderanno una persona più soddisfatta.

Ma è anche qualcosa in più. È l’idea sottile, quasi sussurrata perché esporla ad alta voce sarebbe un’eresia, che il progresso uccide la rivoluzione. Vendere un sogno che distoglie l’attenzione dalla realtà, e quindi il richiamo alla pubblicità che, se ovviamente in Mad Men è centrale, ha una sua importanza anche in Halt and Catch Fire. Nell’ultima parte della prima stagione il richiamo allo spot storico diretto da Ridley Scott per la Apple che citava apertamente 1984 e spiegava perché, grazie al PC, quell’anno sarebbe stato tutto il contrario della realtà orwelliana.

E dall’altra parte lo stupendo e stratificato finale di Mad Men, che dopo un generale happy ending quasi troppo netto per sembrare vero, gettava sull’altro piatto della bilancia lo spot altrettanto celebre della coca-cola, che inquadrava un gruppo di persone di tutto il mondo in un campo unite dal tenere in mano una bibita. A modo loro due fotografie del loro tempo, due forme di rivoluzione che vengono incamerate e fatte proprie da colossi, che le rigurgitano spiegandoti che il cambiamento – ma anche le semplici aspirazioni delle persone – sono un affare serio, ed è meglio orientarle prima che lo faccia qualcun altro.