Simon Kinberg, produttore della saga degli X-Men e regista di Dark Phoenix e del thriller 355, è il co-creatore e sceneggiatore di Invasion, la nuova serie in arrivo su Apple TV+ ideata insieme a David Weil, che ha portato recentemente sul piccolo schermo Hunters. Le dieci puntate che compongono la prima stagione raccontano quello che accade quando sulla Terra avviene un’invasione aliena, evento raccontato negli episodi mostrando diverse prospettive e ciò che accade in varie località intorno al mondo.

Nel cast c’è Sam Neill (Jurassic World) nel ruolo dello sceriffo John Bell Tyson, che sta per andare in pensione; Shamier Anderson (Wynonna Earp) che sarà il militare Trevante Ward, che è in missione in Afghanistan; Golshifteh Farahani (Gen: Lock) nei panni di Aneesha Malik, immigrata dalla Siria, moglie e madre che vive a Long Island; e Firas Nassar (Sirens) che sarà il marito della moglie, Ahmed, mentre Shioli Kutsuna (Deadpool 2) interpreta Mitsuki, nello staff che si occupa del programma spaziale giapponese.

Alla regia c’è Jakob Verbruggen (The Alienist), coinvolto anche come produttore in collaborazione con lo sceneggiatore Andrew Baldwin, Audrey Chon, Amy Kaufman, Elisa Ellis e Katie O’Connell Marsh.

Kinberg, durante un’invontro con la stampa internazionale, ha parlato dell’approccio scelto al racconto dell’invasione aliena, da tempo alla base di opere cinematografiche, letterarie e televisive, e di come l’aspetto più importante sia stato quello di offrirne una versione realistica e in cui gli spettatori possano identificarsi.

Ecco le dichiarazioni del creatore e produttore:

Siamo abituati al fatto che ogni volta che avvenga un’invasione aliena, o un’apocalisse, la normalità è che si svolga negli Stati Uniti. Pochi film e serie scelgono un’altra ambientazione. Da cosa è nata la scelta di mostrare gli eventi in varie località di tutto il mondo?

Ho l’impressione che la maggior parte delle storie di invasioni aliene e molta fantascienza, ma prevalentemente le storie legate all’arrivo degli extraterrestri, abbiano davvero gli Stati Uniti al centro. Che si tratti di film come La Guerra dei Mondi di Steven Spielberg, Independence Day o Arrival – anche se l’invasione sta accadendo in tutto il mondo – ci si concentra sull’America. E per me è realmente importante ed essenziale raccontare una storia globale, specialmente ora che viviamo in un mondo globale come non lo è mai stato in passato, e questo grazie a internet, ai social media, alla tecnologia che abbiamo a disposizione e ci permette di essere più connessi rispetto al passato. In ognuna di queste storie, inoltre, abbiamo cercato di essere particolarmente specifici dal punto di vista culturale: nel racconto ambientato nel Regno Unito i ragazzini stanno parlando come i giovani di Londra, nella storia giapponese la protagonista sta affrontando delle questioni a livello culturale che sono molto specifiche per quanto riguarda la sua nazione, e anche nella storia americana la famiglia Malik è siriano-americana, quindi arabo-americana, e sta affrontando quello che vuol dire essere una persona di colore, una famiglia di colore, che vive in un quartiere prevalentemente bianco. Per me era quindi realmente importante che non fosse un’altra storia di alieni sugli americani bianchi.

In passato, anche quando si mostravano eventi ambientati in altre nazioni i personaggi comunque parlavano inglese, mentre voi avete scelto di mantenere la lingua delle varie nazioni, come appunto il giapponese. C’è chi sostiene che la visione con i sottotitoli non sia accolta positivamente da tutti, avete avuto qualche problema quando avete proposto la serie con questo approccio ai produttori?

Per me era davvero realmente importante che i personaggi che stavano vivendo in varie parti del mondo parlassero la loro lingua nella serie perché volevo creare un senso di realtà. Volevo che suscitasse l’impressione che non si trattasse di una normale storia di un’invasione aliena e che fosse il più realistica possibile, quindi quell’elemento era una parte importante del pitch che ho fatto ad Apple e loro lo hanno accolto davvero positivamente. Non è stato complicato farlo accettare perché, inoltre, viviamo in un mondo globale e ora siamo abituati a guardare i sottotitoli in varie parti del mondo, e anche in America. Basta inoltre pensare che quando guardiamo i notiziari in molte nazioni in fondo allo schermo ci sono delle informazioni che scorrono e le persone stanno dicendo qualcosa, ma noi stiamo leggendo una cosa diversa. In più magari stiamo controllando in contemporanea il telefono. Penso che ora i sottotitoli siano facili considerando il multitasking che contraddistingue ogni momento della nostra vita. Credo fosse quindi realmente importante creare quel senso di realtà che si trattasse del fatto che stanno parlando arabo, o gipponese, o anche nel caso dei ragazzini britannici alle volte dicessero cose che gli americani o chi parla inglese in altre parti del mondo magari non capisce perché hanno un accento o un dialetto diverso. Ed è un elemento importante e in passato mi sono scontrato con gli studios che si sono opposti al fatto che le persone parlassero nella loro lingua, dovendo ogni volta ricordare che il film di maggior successo nella storia è stato Avatar e i dialoghi in Na’vi sono sottotitolati per una buona parte di quel film. Il mondo, ovviamente, non ha avuto alcun problema ad apprezzarlo considerando i risultati ai box office. Penso che lo stigma contro i sottotitoli sia davvero obsoleto.

invasion

Invasion cerca di raccontare la storia da diverse prospettiva, proponendo vari personaggi di età, provenienza e stato sociale diverso. In particolare la storia ambientata in Giappone è molto legata agli aspetti locali, come è stato lavorare a quella parte della storia e con attrici come Shioli Kutsuna e Bingbing Fan?

Per questo show, e in generale per il mio lavoro, per me è davvero importante che un’opera rifletta la realtà del mondo globale in cui viviamo. Non viviamo in una situazione in cui c’è prima l’America e poi il resto del mondo e ne siamo più consapevoli grazie alla rete e ai social media. Probabilmente in passato l’approccio era diverso perché l’America dominava il settore dell’intrattenimento e ora non più, pensiamo a successi ottenuti da progetti come La casa di carta, Lupin e ora Squid Game. Lavorare con attori e attrici asiatiche è stata un’esperienza davvero gratificante perché, per prima cosa, ci sono dei talenti incredibili, che si tratti del Giappone, della Cina, della Tailandia e della Corea, e lo stesso vale per i registi. Come sceneggiatore che non è cresciuto in quella cultura questo mi regala la possibilità di addentrarmi in una storia e, appunto, in una cultura, davvero ricche e in una storia più profonda e più antica rispetto a quella americana. Lavorare con Shioli Kutsuna è stato straordinario. Avevo già collaborato con lei in occasione di Deadpool 2, ma aveva una piccola parte e non ero consapevole, se devo essere onesto, di ciò che fosse in grado di fare. Non mi ero reso conto che fosse così straordinaria come è nello show in cui è emozionante, reale e onesta. E lavorare con Bingbing Fan è incredibile: ho lavorato due volte con lei: in X-Men – Giorni di un futuro passato aveva avuto un ruolo davvero piccolo e ora in The 355 è protagonista accanto a Penelope Cruz che è spagnola, e Lupita Nyong’o che ha delle origini non americane. Bingbing ha portato una prospettiva completamente diversa rispetto a quella americana. Siamo tutti frutto delle nostre origini, del posto in cui viviamo, e portiamo tutto questo nella nostra arte, quindi due attrici come loro rendono ogni opera più ricca.

Invasion - Banner

Nella serie non vediamo immediatamente gli alieni, trascorre un po’ di tempo prima che si possa vedere la minaccia. Perché avete preso questa scelta?

Penso che fin dall’inizio il mio approccio allo show fosse che doveva trattarsi di un progetto con al centro i personaggi, le loro emozioni, in cui ci sono persone reali che affrontano delle crisi drammatiche nella propria vita. Prima che comparissero gli alieni volevo che gli spettatori si fossero avvicinati e si sentissero in connessione con questi personaggi, che le loro vite sembrassero realistiche prima di introdurre l’elemento di finzione e fantascienza. Ho chiarito subito che si trattava di uno show sui personaggi e che quello che provano potesse attirare gli spettatori. Inoltre volevo che l’invasione aliena venisse mostrata come accadrebbe nella vita reale, ovvero come un elemento di cui non sai niente, misterioso, graduale, non come accaduto a volte in precedenza con astronavi che appaiono dal nulla e iniziano a distruggere monumenti o attraversano Times Square. Penso che la rivelazione progressiva sia come accadrebbe nella vita reale e volevo che il pubblico vedesse la reazione di questi personaggi praticamente in tempo reale e in un modo che portasse a pensare ‘Lo farei anche io se fossi in loro. Sembra come se stessi compiendo un percorso alle prese con questa cosa misteriosa che sta accadendo nel mondo con loro’. Non volevo che fin dall’inizio ci fossero degli alieni che colpiscono e uccidono e fosse solo un altro show action, volevo fosse qualcosa in più rispetto a quell’approccio.

Sono stati realizzati molti film con al centro un’invasione aliena. Hai dei preferiti che hai usato come fonte di ispirazione per la serie?

Ne ho molti. Penso sia un genere che è stato ben raccontato. Limitandomi a due titoli direi Incontri ravvicinati del terzo tipo che ha fatto parte delle mie fonti di ispirazione, in parte, perché quello che ha fatto Steven Spielberg è stato di mantenere molto legata alla realtà la storia e concentrarsi su questo personaggio e sul suo rapporto con la propria famiglia. Si è concentrato principalmente sul personaggio di Richard Deyfuss e questo mi ha portato a pensare che si potesse raccontare una storia su una persona che sembrasse reale, sulla crisi emotiva che si affronta quando entra in scena qualcosa di misterioso e che non puoi conoscere. Quel film è stato una grande fonte di spirazione. L’altro film che è tra i miei favoriti, anche se non direi che è totalmente rilevante con la serie, è District 9: quello che Neill Blomkamp ha fatto con quell’opera è stato genio puro.

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