Nonostante Wanna, la docuserie su Wanna Marchi che andrà online dal 21 settembre su Netflix, sia abbastanza esaustiva e ricostruisca sia la vita personale che soprattutto le vicissitudini professionali di Wanna Marchi con dovizia, lo stesso una volta finita le domande rimangono tantissime. Domande sulla vita di Wanna Marchi ma anche su come sia stato fatto il documentario, come abbiano proceduto e cosa sia stato facile e cosa difficile. La ragione è che le Marchi (Wanna e Stefania) sono un mistero che è appassionante sondare, come è enigmatico il mago Do Nascimento, difficili da capire anche perché non si lasciano comprendere loro in primis.

Di questo e altro abbiamo potuto parlare assieme ad altri giornalisti con Alessandro Garramone, autore e ideatore della serie, e Gabriele Immirzi che la serie l’ha invece prodotta per Fremantle Italia. Di fatto le due persone che l’hanno realizzata.

È stato difficile avvicinare Wanna e Stefania?

ALESSANDRO GARRAMONE: “No. Hanno accettato subito per via dell’illuminazione mediatica che si aspettano dal progetto. Però pur avendo avuto momenti di tensione durante le interviste gli va dato di aver accettato di buttarsi senza paracadute”.

Non sapevano come ne sarebbero uscite?

AG: “Noi le abbiamo convinte incontrandole e dicendo loro in modo netto che volevamo raccontare una storia che non sarebbe stata un’operazione di lifting comunicativo, una storia su cui loro non avrebbero potuto avere alcun controllo. Le dissi proprio: “Nel caso dovessimo fare questa cosa cercherò tutte le persone che penso debbano parlare”. Perché la mia idea dall’inizio non era di fare la biografia di Wanna Marchi ma una storia in cui lei attraversa questo trentennio di trasformazioni e cose che succedono”. 

Hanno visto la serie?

AG: “Al momento non hanno visto niente, la vedranno come tutti quelli che hanno partecipato. Comunque non ne potrebbero parlare, hanno sottoscritto un accordo di riservatezza fino all’uscita e non hanno preso compensi”.

wanna marchi stefania nobile

Questa suona come la storia che tutti vogliono sentire, l’avete capito anche voi subito?

GABRIELE IMMIRZI: “Era il periodo in cui era esploso Tiger King, ed è stato un po’ la nostra reference, un personaggio larger than life con una storia incredibile. In più avevamo una disponibilità di archivio pazzesco, una storia che sì è svolta tutta davanti alle videocamere”.

Ma a voi cosa piaceva di questa storia?

AG: “Che c’è molto che non sappiamo da indagare. E poi mi intrigava il familismo amorale di Wanna Marchi, il legame madre/figlia. La scoperta per me è stata quanto questo legame entri nella storia come un’altalena, ti sembra pesare da una parte e poi sembra pesare dall’altra. Per tutte le riprese e gli incontri mi sono domandato chi fosse condizionato da chi (se la figlia dalla madre o la madre dalla figlia), e alla fine ho capito che sono quasi la stessa cosa, sono duali”.

I collaboratori di Wanna Marchi hanno voluto parlare tranquillamente? 

AG: “No, qualcuno come i telefonisti non voleva parlare e altri non volevano farlo davanti alle telecamere, ma ci servivano lo stesso per capire le dinamiche. Il processo non ricostruisce la fase calda di quel che accadeva e come accadeva. Quindi parlare con i telefonisti è utile anche se poi non vanno in video. Alcuni ci hanno detto: “Io dopo questa storia sono andato a fare l’animatore turistico per 7 anni dall’altra parte del mondo, mi piacerebbe parlarne ma domani ci vai tu a prendere mia figlia a scuola?” Ci sono persone che non hanno fatto i conti con tutto ciò e non hanno chiarito con se stessi perché ci erano finiti”. 

Come pensate che sarà presa la serie?

AG: “C’è ancora molto dolore per questi eventi ma è pur vero che in Italia la truffa è il reato in cui più di altri la vittima pare più colpevole del truffatore. Da noi essere percepito come poco sveglio ti rende odiato, non li amiamo quelli che si fanno fregare. Abbiamo il culto della furbizia”.

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Ci sono stati momenti di tensione con le Marchi?

AG: “Abbiamo fatto con loro 3 interviste da 7 ore l’una e sì, ci sono stati momenti di tensione vera, perché ho chiesto cose che non avrebbero voluto dire. Sono momenti che abbiamo tenuto nel documentario. Del resto per noi l’unica verità acclarata è quella dei processi fino a quando non ci sarà la possibilità di un’altra sentenza, ma loro hanno pagato quel che la giustizia ha deciso e per me hanno il diritto di poter esprimere il loro pensiero”.

Dove l’avete trovato il maestro di vita Do Nascimento?

AG: “È stata la cosa più difficile. Era chiaro che senza Do Nascimento il progetto sarebbe stato un disastro, ma era anche introvabile. Cioè nessuno in Italia aveva la minima idea di dove fosse. L’unico indizio era che si trovasse nella regione di Bahia. Per fortuna ho in redazione due ragazzi bravissimi, Giuseppe Bentivegna e Olga Borghini, che hanno fatto proprio un lavoro di indagine giornalistica. Abbiamo iniziato prima cercando i ristoranti italiani perché magari li poteva frequentare ma erano 1.500 solo in quella regione, poi per fortuna loro due hanno scoperto che in Brasile tutte le cause e gli incartamenti sono pubblici, stanno online. Così l’abbiamo trovato. Abbiamo contattato il suo avvocato per assicurarci che fosse proprio lui (Do Nascimento ci si chiamano tutti in Brasile, pure Pelè si chiamava così) e per fare da tramite. Inizialmente volevamo intervistarlo via Skype ma dopo averlo visto per un primo colloquio era chiaro che dovevamo andare lì anche se eravamo in pieno Covid. Non è stato un confronto facile, di molte cose non aveva voglia di parlare”.

Siete rimasti stupiti dal fatto che non mostrano nessun segno di pentimento?

GI: “Io credo che loro, avendo scontato una pena detentiva molto lunga per gli standard italiani (visto che era stato un caso mediatico) ed essendo state travolte da un’ondata di indignazione sacrosanta per come infierivano su vittime deboli e fragili, abbiano percepito di essere state punite oltre quelle che sono le loro responsabilità, quindi adesso hanno questa reazione rabbiosa con il mondo”.

AG: “Loro dicono di non pentirsi e penso che lo dicano per ribadire un attestato di rettitudine morale, tipo: “Piuttosto mi schianto e faccio la galera ma non vado a piangere. Sono coerente”. Non hanno ammesso la colpa nemmeno in tribunale, quando gli sarebbe convenuto”.

Ci sono margini per farne anche un prodotto di finzione?

GI: “Da produttori e autori non posso dire che non ci pensiamo all’idea di trasformare in finzione questa storia, dipende poi da come va la docuserie. Non è deciso niente”

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