Ci sono due costanti elementi a sorreggere tutti gli episodi di Roar. Due elementi che dovrebbero lavorare in sintonia, come accade in quelli più riusciti (che sono però la minoranza), quando invece, nella maggior parte dei casi, uno finisce per sovrastare l’altro, e l’efficacia ne risente. Si tratta di un presupposto weird, un qualcosa di strano e dissonante, che a volta sfocia nel creepy, a volte nel grottesco: mangiare fotografie, dare appuntamenti alle anatre, vivere sugli scaffali come trofei. E poi la parabola dei personaggi, l’insegnamento che traggono loro (e noi spettatori) al termine dell’arco narrativo. Una componente straordinaria come cornice di una molto più ordinaria, dal valore universale, al servizio di una trattazione a tutto tondo della condizione femminile. Una chiarezza d’intenti che azzoppa il risultato complessivo della serie.
Roar, serie antologica da 8 episodi (di circa 30’ ciascuno), disponibile dal 15 aprile su...
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