La cosa più affascinante della miniserie Chernobyl, disponibile interamente su NOW, sono le procedure. Le azioni da compiere in caso di emergenza, le catene decisionali, le strutture burocratiche che regolano le decisioni e la difesa della popolazione. Craig Mazin (sceneggiatore) e Johan Renck (regia) lavorano su due fronti. Il primo è l’orrore della tragedia del reattore nucleare esploso. Il secondo, che occupa la metà finale della miniserie, è un’analisi retrospettiva dell’accaduto. Parlando dei fatti emergono nuove verità.

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Ma la ricerca delle responsabilità non è una spinta per la facile indignazione dello spettatore che vuole gridare “vergogna!”, come una vittima compiacente della retorica audiovisiva. È fatto invece per arrivare a una delle asserzioni più cupe, indicibili, e che meno si è disposti ad ascoltare: i governi spesso agiscono per salvare la faccia, ancor prima delle vite. E soprattutto i più grandi alleati di questo modus operandi distorto sono proprio i cittadini, le persone che più dovrebbero opporsi, ma che invece sono incapaci di organizzarsi e riaffermare il proprio bisogno di verità. Siamo tutti vulnerabili.

Chernobyl è una delle più grandi serie dell’orrore mai fatte, e non è nemmeno un horror! Non c’è l’elemento soprannaturale, non c’è un assassino a piede libero o il male assoluto. Eppure per tutta la sua durata si avverte un senso di oppressione che toglie il respiro. Inizia quando Valerij Alekseevič Legasov (Jared Harris), uno dei protagonisti, è costretto a temere l’ombra delle strade. Anche i muri hanno occhi, i telefoni hanno orecchie. È stretto in una morsa che non lascia scampo. Come degli adolescenti in una casa infestata. Come una fanciulla braccata da un mostro. Lui no, lui è un uomo libero (apparentemente) con il giogo della nazione che si stringe sempre di più alla sua gola.

Ma questo è un cappio che non lascia indenne nessuno e che costringe a fare azioni orribili – spesso di omertà – in nome di uno scopo superiore apparentemente chiaro (il bene della comunità), ma che in realtà è solo un’illusione. Uno specchio deformante rispetto al fine dei protocolli sopra citati: nati per evitare il peggio, usati invece per nasconderlo.

La serie è ben ordinata. È simmetrica. La durata contenuta offre un equilibrio tra i momenti con il climax in testa e il dramma umano in coda.

La prima parte è tutta incentrata sulle azioni. I personaggi fanno. Compulsivamente fanno. Che cosa? Non è chiaro nemmeno a loro. Forse è solo il possibile.

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È un continuo correre di qua e di là, nessuno può avere tregua. L’ospedale si riempie di feriti, chiunque deve dare una mano come può. C’è una corsa contro il tempo per contenere i danni, e una per decidere come e quando comunicare agli altri stati l’accaduto. La frenesia detta il ritmo incalzante soprattutto del primo episodio. Dove il reattore è come un mostro con una pancia enorme e incandescente che scricchiola, riversa liquidi, borbotta.

I moderni Giona sono all’interno della balena che li sta inghiottendo. Sono gli eroi le cui imprese non sono cantate. Stanno eseguendo ordini che gli costeranno la vita, non è chiaro quanto consapevoli di quello che sta accadendo. Ed è questo che fa ancora più paura, il lento avvicinarsi della morte inevitabile (e straziante) senza che questa bussi alla porta. No, lei entra dalla finestra, accompagna questi personaggi inconsapevoli come un fantasma che guida le loro azioni.

Dopo questo incipit Chernobyl diventa una serie di parole. Le regole si scontrano e si incartano. Le regole non rispettate e quelle invece seguite alla lettera, quelle irrazionali imposte dal partito contro ciò che invece è giusto in quel momento. Shcherbina, interpretato da Stellan Skarsgård, è la burocrazia personificata in netto contrasto con la razionalità di Legasov. Come una sorta di buddy-movie gli episodi centrali li contrappongono come acerrimi nemici.

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Poco dopo sarà invece la saggezza di Shcherbina a sbloccare la situazione. Egli è il più coraggioso di tutti (aiutato dalla sentenza di morte data dall’esposizione alle radiazioni) perché sceglie di opporsi al suo dovere. Non rispetta gli ordini e per questo rischia di scomparire due volte: nel corpo e nella sua immagine pubblica. Se lo scienziato e il burocrate avessero tirato entrambi dalla parte opposta, la tragedia sarebbe stata ancora più immane. Il passo indietro di Shcherbina è quindi l’atto più rivoluzionario nell’intera storia.

È per questo che Chernobyl riesce a impressionare così tanto pur raccontando fatti ben noti e già analizzati più volte nell’audiovisivo. Soffermandosi così tanto sulle procedure di uomini e donne che dovevano essere pronti, ma che non lo son stati, ci mostra fragili. Le regole autoimposte di condotta e i protocolli adottati per tentativi, quando ancora non si è in grado di comprendere l’entità dell’accaduto, sono come mosse disperate nella partita a scacchi con la morte. Tentativi atti solo a contenere i danni e rimandare l’inevitabile. Inevitabile la deduzione: lo stato e il patriottismo sono bandiere dalle maglie troppo larghe per proteggere veramente.

Chernobyl filma l’idea che la tecnologia e il progresso siano solo un’illusione di potenza che, quando crolla, fa riscoprire alle persone la vera condizione umana: primitivi naufraghi in balia delle onde. A dirlo fu un reattore nucleare. Oggi è un virus.

Chernobyl è interamente disponibile in streaming su NOW.