Hawkeye episodio 4: questa volta il limite è nell’azione

Un uomo cammina per tutto il giorno nel Marvel Cinematic Universe. Noi vediamo quello che vede lui. Le sue ore trascorrono generalmente noiose, a volte invece sono eccitanti. Come quelle di una persona qualsiasi. Ogni tanto però lui scorge un ragazzo in costume volteggiare tra i palazzi sparando ragnatele inseguito dagli elicotteri della stampa. Arriva a casa e i figli gli raccontano di una brutta rissa tra una fazione della Mano e un nuovo eroe con il costume da diavolo vista dalle finestre della scuola. L’uomo impreca, rimpiange i bei tempi in cui non c’erano quei superesseri e si poteva camminare per le strade senza temere che un alieno piovesse dal cielo. Si guarda un documentario su Steve Rogers alla tv e si addormenta.

Potrebbe una serie tv reggersi su queste premesse? No. Sarebbe interessante? Sì, moltissimo.

Il concept non è nuovo, per i lettori dei fumetti, e si chiama Marvels. Ovvero la miniserie a fumetti di quattro numeri scritta da Kurt Busiek, disegnata da Alex Ross. In quel classico dell’arte fumettistica il soggetto principale è il fotografo Phil Sheldon che assiste ai cambiamenti di New York (e del mondo intero) uscendo di casa e fotografando il mondo attorno. C’è al “matrimonio del secolo”, scatta immagini di uomini talpa che escono dalle fogne e Dei che appaiono nel cielo. Le nuove mutazioni gli fanno paura come sempre succede per l’ignoto e il diverso, fino a che non se le trova in casa. Nulla di questo è però il cuore di Marvels, tutto è sfondo. Il protagonista è lui, un uomo qualsiasi che deve vivere nel mondo della Casa delle Idee.

La quarta puntata di Hawkeye trova nei suoi pregi la prova che ci stiamo avvicinando più che mai a questa idea narrativa, mentre i suoi difetti fanno scontrare con la realtà di una struttura seriale che imbriglia nella rigida griglia di introspezione-azione-cliffhanger.

Perché se nella puntata 3 quello che funzionava di più era la gestione dell’azione e come attraverso la scelta dell’arma Clint e Kate riuscissero a raccontare tantissimo di loro, così non è in questo episodio. Il ritmo tira il freno a mano e si fa più introspettivo. Il creatore della serie Jonathan Igla ha capito per tempo che Hailee Steinfeld e Jeremy Renner funzionano alla grande, e quindi non ha paura di metterli uno di fronte all’altra su una sedia. A parlare. A scavare dentro ricordi dolorosi. C’è persino una madre (per quanto ambiguo sia il suo personaggio) che confida all’Avengers di non sentirsi sicura a mandare la figlia all’avventura con lui.

Hawkeye maglioni natalizi

Perché il mondo è pericoloso e ora gli eroi non vincono più, non dalla Civil War, e non dopo lo schiocco di Thanos. Persino i personaggi diegetici (interni al racconto) hanno capito la “fase 3” dell’MCU: ovvero la decostruzione dell’ideale dell’eroe senza macchia e infallibile. Di quel concetto naïf che il bene vinca sempre perché… è bene. E soprattutto che quando succede sia un trionfo assoluto, senza macchia. Invece no, per ogni vittoria ci sono sempre tante perdite o sacrifici necessari come quello di Natasha.

Non è semplice vivere con il ricordo della battaglia di New York (come dicevamo, fuor di metafora, con l’11 settembre di quel mondo lì). È un continuo fare i conti con il rischio, ma anche con la voglia dei più giovani di imitare i propri idoli.

C’è un passaggio straordinario in un breve dialogo che racconta tantissimo delle nuove generazioni del nostro mondo, con quello di finzione. La mamma e il suo compagno parlano di Kate e del rapporto che ha con Clint. Sono stupiti perché si comporta con naturalezza di fronte al proprio idolo di sempre. Anzi, è quasi insolente, lo sfida. Sa quello che vuole e fa di tutto per prendere il suo posto. Se non è un “ok boomer” poco ci manca. Visto anche che i cibi surgelati che servono come ghiaccio per le ossa stanche di Occhio di Falco, lei se li mangia. Avanti i giovani. Senza paura.

Il quarto episodio di Hawkeye potrebbe andare avanti così fino alla fine dei minuti concessi. Come una veduta sul mare in tempesta, ma che ci mette leggermente distanti, al sicuro, a riflettere sulle conseguenze. Ritornano anche i “Larpers”, non la trovata più riuscita del secondo episodio. Eppure rivederli dà quella sensazione di una città in cui in ogni angolo puoi trovare persone con la stessa routine, legati a dei posti ben precisi. Peccato siano ancora troppo generici per essere riconoscibili come caratteri. 

Come nella run di Fraction e Aja, che toglieva ogni super esagerazione e si contaminava con il fumetto indipendente, le registe Bert & Bertie sfruttano al massimo il fatto di avere tra le mani l’unico Avengers che non sa fare meraviglie, se non qualche gioco di precisione. È questo lo spazio giusto per lavorare sugli angoli. La serie si lascia scivolare nelle zone d’ombra che non sono strettamente necessarie narrativamente. Arricchiscono però ciò che conta veramente, ovvero l’impressione che tutto questo sia, se non reale, almeno plausibile. Cioè va a costruire un mondo così complesso che può essere visto sia da una posizione perfettamente allineata con la linea di trama principale, sia da una posizione marginale e più distante: quella “Marvels”.

Hawkeye

Forse è per questo che Hawkeye dà più volte la sensazione di un videogioco open world. Due personaggi intercambiabili, una mafia in tuta anonima e sacrificabile, mentre il presunto cattivo al centro calamita attorno a sé oggetti e personaggi chiave. Poi Hawkeye riempie di comprimari le scenografie. Non scrive parti complesse o approfondite per queste figure di sfondo. Però ci sono: pizza dog, i larpers, le persone che osservano i due nella città, i passanti che non li riconoscono, i semplici lavoratori e i turisti… tutti riempiono di vita una città che è un foglio bianco in cui i due occhio di falco si possono spostare in cerca di avventure.

Ed è così bello esplorarlo che è quasi un peccato quando le convenzioni del genere lo richiamano all’azione. Sono rarissimi gli albi dei supereroi che in 22 pagine non hanno nemmeno uno scontro. Così è quasi impossibile pensare a una puntata di una serie TV dedicata a dei supereroi senza un conflitto fisico in 40 minuti. Però questa puntata 4 di Hawkeye avrebbe potuto andare avanti con Clint e Kate seduti a un tavolo a parlare della vita cercando di rimarginare le rispettive ferite (fisiche e non) e sarebbe andato bene così.

Purtroppo chiediamo sempre di più di stupirci rilanciando la posta in gioco. Intessendo l’ennesimo legame con “lo schema più grande”, buttando dentro ogni volta un personaggio o un colpo di scena che faccia attendere con il fiato sospeso la puntata successiva.

Si delega spesso a questi prodotti il compito di trasmettere idee ed emozioni tramite il colpo visivo della meraviglia. L’azione e lo scontro tra i corpi. Altre volte accettiamo che lo si faccia tramite i dialoghi. Ma il vero trucco sta nei luoghi.

Si permetta la digressione: in Harry Potter è più facile innamorarsi di Hogwarts che dei tre maghi. Perché si camminerebbe in quei corridoi per ore perdendosi apposta. In Star Wars ogni apparizione del Millennium Falcon viene accolta come quella di un amico lontano. Perché le sue lamiere sono calde e famigliari. È un oggetto che nelle emozioni date da una finzione richiama la casa. Così anche la Contea del Signore degli Anelli, opposta alle dure rocce di Mordor, è un contrasto tra luce e buio che fa gran parte del suo fascino.

Nell’MCU i luoghi sono più o meno quelli reali (lato cosmico a parte). Sono però resi unici da tutte le piccole deviazioni dalla realtà. Queste sono racchiuse nei dettagli. Nella finzione ci sono film reali (Star Wars per dirne uno), e altri influenzati dagli eventi di fantasia (i fan film su Rogers). L’economia interna varia sulla base delle catastrofi di turno. L’opinione pubblica alterna il proprio pensiero. Si creano correnti politiche e filosofiche, ne cogliamo la superficie grazie alle scritte sui muri. E ancora: le imprese di costruzione che hanno rimesso in piedi la città hanno un nome e dei proprietari. 

Una torre viene eretta, crolla parzialmente, viene rivenduta, i suoi proprietari si spostano in un altro luogo. Chi sarà il nuovo inquilino? Sapere queste cose è già di per se eccezionale. Riuscire a conoscere gli spostamenti dei personaggi, i luoghi in cui si trovano in un dato momento anche se non li vediamo inquadrati è un “effetto speciale” che appaga i fan più fedeli in una maniera unica. Perché coinvolge e fa sentire parte di un qualcosa di avvolgente. Ma ancora più bello è poter ascoltare dei personaggi interni al racconto commentare quasi da spettatori quello che succede.

Hawkeye però deve interrompere questo divagare (che poi divagare non è) in lungo e in largo per rispettare le esigenze di trama. Eppure in questo quarto capitolo avremmo rinunciato volentieri all’azione. Siamo pronti a vedere quaranta minuti di un umano che si è confrontato con le divinità che cammina con una giovane ammiratrice e un cane cieco da un occhio per le strade di un mondo così simile al nostro eppure così diverso. È qui il divertimento: i dettagli non sono più easter egg, sono la storia stessa.

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