Continua il ciclo di articoli, a cura dell’Archivio Videoludico, dedicati alle realtà italiane che producono videogiochi. Questa volta è il turno di Tiny Colossus, una delle venti software house che hanno aderito all’Area deV dell’Archivio, sezione che mira alla salvaguardia e alla valorizzazione dei videogiochi realizzati in Italia.

 

1. La prima domanda, di rito, non poteva mancare: da dove venite? Chi siete? Dove andate? Perché Tiny Colossus?

Innanzitutto devo correggerti il plurale: Tiny Colossus è, per ora, una sola persona. Eravamo partiti più o meno in due, ma il musicista ha preferito lavorare da esterno, per cui ora sono solo io. Mi chiamo Ciro Continisio e lavoro nel mondo dei videogiochi da circa 6-7 anni. Come formazione si può dire che sia più graphic che game designer, ma nel tempo mi sono specializzato sempre di più nel game design e nella programmazione relativa ai videogiochi, principalmente come autodidatta. Le skill grafiche che avevo però mi tornano sempre utili, in quanto ora posso farmi da solo asset, trailer e siti web.
Nel 2010 ho fondato Tiny Colossus, e al tempo il nome (oltre che suonare bene) mi sembrava una metafora per qualcosa che fosse al tempo stesso piccolo (inteso come dimensioni del team, eravamo in due) ma grande in prospettiva. Ora non so, però il nome è rimasto!

UFHO2 screenshot

UFHO2 – screenshot

2. Nel sito ufficiale sottolineate un aspetto non banale: i videogiochi, per prima cosa, devono essere divertenti. Vi lancio una provocazione: credete che, soprattutto in ambito indie, si stia perdendo di vista il puro divertimento in favore di esperienze cervellotiche, troppo mature, complesse; in altre parole, pretenziose?

Anche qui la frase è un po’ vecchia, ma mi sento ancora di supportare quella precisazione. Personalmente quando penso a un gioco parto sempre dal gameplay, dai controlli, dalle meccaniche. Difatti, mi risulta molto, molto difficile pensare a un gioco che abbia una componente narrativa forte: di solito penso prima al gameplay, e poi gli trovo un’ambientazione. Con questo però non voglio dire che rifiuti quello che sta succedendo in questi anni. L’evoluzione del videogioco mi piace e sono molto benvenuti gli esperimenti che si stanno vedendo, così come i giochi che cercano di affrontare temi più complessi. Penso infatti che molti giochi della vecchia scuola siano oggigiorno ancora belli come gameplay, ma datati per quanto riguarda le tematiche o il modo in cui le trattano. Personalmente non sono in grado di concepire questo genere di giochi, ma invidio chi l’ha fatto e mi piace giocarli.

Probabilmente la cosa va di pari passo con la mia evoluzione personale di questi anni: crescendo cambiano le prospettive, i punti di riferimento, si matura (o almeno così si spera), e quindi vorrei vedere anche nei videogiochi questo percorso. In ogni caso l’altra faccia della medaglia, ovvero giochi che sono puro divertimento, ci saranno sempre e non scompariranno presto, quindi non c’è di che preoccuparsi.

UFHO2 screenshot

UFHO2 – screenshot

3. Il crowdfunding videoludico, in Italia, non è esattamente all’ordine del giorno (sebbene ultimamente ci siano stati traguardi positivi in tal senso). Il vostro UFHO2 è stato un progetto pioniere in tal senso. Qual è stata la vostra esperienza con Kickstarter?

Quando ho lanciato la campagna di UFHO2 (fine 2011 – inizio 2012) effettivamente i progetti italiani si contavano sulle dita di una mano. La campagna in ogni caso era piccola, e infatti è stata abbondantemente superata da altri progetti subito dopo (Riot, su tutti) e questo mi ha dato enormi problemi nel finire il gioco.
All’epoca ero abbastanza inesperto e i fondi raccolti erano veramente pochi. Finire il gioco è stato una scommessa, però devo dire che guardando indietro lo rifarei – magari con un po’ più di buon senso. Il gioco non ha avuto un gran successo commerciale, ma ancora oggi scopro di gente che mi conosce solo grazie a UFHO2: da un designer che lavora in Gameloft a Madrid, all’addetto alle relazioni con gli sviluppatori italiani di Nintendo of Europe (che infatti è stato un backer!). Come ho detto già in qualche presentazione, Kickstarter tante volte non è solo un modo di farsi finanziare ma principalmente un veicolo di pubblicità potentissimo.

Fatal Error screenshot

Fatal Error – screenshot

4. Cosa ci attende dopo UFHO2? Ci volete parlare un po’ dei prossimi progetti?

Per ora progetti marcati esplicitamente Tiny Colossus non ce ne sono. Sto lavorando ad un gioco, uno shooter multiplayer in locale molto frenetico di nome Fatal Error, insieme ad Ennio Pirolo (ex collega in Interactive Project) e a un paio di collaboratori esterni. Per quanto il gioco sia già a buon punto (l’abbiamo già messo su Steam Greenlight), manca ancora un po’ prima che possiamo considerarlo finito. Visto che è un progetto portato avanti nel tempo libero, non posso fare previsioni su quando uscirà, ma tenete d’occhio le pagina Facebook e Twitter, non si sa mai!

Fatal Error screenshot

Fatal Error – screenshot

5. Di industria italiana del videogioco si inizia a parlare sempre più spesso. Secondo voi che prospettive hanno, o vorreste che avessero, i dev in Italia?

Domanda spinosa, eh? Se parliamo di sviluppatori indipendenti, dico sempre che le prospettive sono più o meno le stesse di quelle che gli sviluppatori hanno all’estero. Lo sviluppo indipendente funziona sempre su scala mondiale, l’indie dev vende su internet e si promuove su internet, quindi non ha senso – e qui lo dico a mo’ di ramanzina – lamentarsi perché l’Italia è indietro. Si può perfettamente sviluppare in Italia, partecipare alla community italiana, andare per eventi in Italia e poi – fondamentale – muoversi all’interno dell’Europa per eventi e per promuovere il proprio gioco (tra l’altro, città come Roma o Milano sono centrali e da lì puoi spostarti in Europa in aereo a prezzi vantaggiosi). Io la campagna Kickstarter l’ho fatta da Roma!

Inoltre, e lo dico sempre, vivere in Italia è più economico che vivere in altre nazioni “più videoludiche” come Inghilterra, Danimarca o Svezia, quindi ogni copia venduta rende di più (visto che alla fine il prezzo che l’utente paga non dipende dal paese in cui risiede lo sviluppatore). Oltre a questo, la qualità della vita a volte è più alta (penso per esempio a Londra). Per questo credo che vivere in Italia abbia i suoi vantaggi, più che svantaggi. Nei casi di indie dev che si lamentano della situazione, personalmente penso sia più un problema di mentalità che di risorse che mancano nel nostro paese.

Quando però “il gioco si fa duro”, ovvero l’azienda cresce e si vogliono assumere persone, o far entrare finanziamenti, sento dire (perché non lo vivo in prima persona) che stare in Italia diventa un problema per la burocrazia complessa e per le tasse mediamente alte. In quel caso, c’è solo da sperare che il governo faccia qualcosa in merito nel medio-lungo termine, e per questo mi sento di appoggiare il lavoro di associazioni di categoria (come AESVI in questo momento), che sono l’unico modo per smuovere un po’ la situazione in questo senso.