L’isola di The Witness è un po’ come quella di Lost: non spiega, parla pochissimo, ce la mette tutta per disorientarvi, alienarvi, persino umiliarvi. Eppure, allo stesso tempo, è naturalisticamente parlando meravigliosa, densa di fascino, addirittura attraente. Un po’ come accaduto con Myst, eoni fa ormai, il piacere della scoperta diventa un bisogno fisiologico, una sfida in grado di coinvolgere ogni senso, spingendovi, quasi irrazionalmente, a non cedere, pur di ottenere e meritare la verità rivelata. Anche The Journey, senza stare a scomodare il solito Shadow of the Colossus, pretendeva un genuino atto di fede, un viaggio senza ritorno in direzione di un traguardo indefinito, incerto, sicuramente astratto. Il paragone con il piccolo capolavoro di Thatgamecompany non è valido esclusivamente sul piano emozionale: anche nell’opera di Jonathan Blow, già fautore di Braid, c’è una montagna, tutta da scalare, che in qualche modo rappresenta la meta, l’approdo ultimo di un faticoso e comple...