Non è stato affatto facile approcciarmi a Death Stranding Director’s Cut, titolo che nella sua forma originaria avevo giocato, con molto scetticismo, ora posso ammetterlo candidamente, ad un paio di mesi dal suo debutto ufficiale sul mercato, avvenuto l’8 novembre del 2019. Quel gennaio 2020, a pochissimi giorni di distanza dallo scoppio della pandemia contro cui stiamo ancora combattendo, non senza un pizzico di sorpresa, vista la mia enorme passione per le opere di Hideo Kojima, feci molta fatica ad appassionarmi alle sorti di Sam Porter Bridges.

Non fu il gameplay, volutamente lento, volutamente difficile da digerire, a impedirmi di giungere sino ai titoli di coda. Certo, i molti impegni lavorativi dell’epoca e il lockdown che di lì a poco divenne effettivo e reale, non aiutarono la mia immersione nella visione del game designer nipponico. Eppure, a sfiancare il mio entusiasmo fu proprio il contesto narrativo, così difficile da accettare e ritenere solido quanto basta. Del resto, in questo futuro dove è possibile costruire quasi tutto in remoto, dove l’umanità è stata in grado di scoprire una tecnologia talmente portentosa da aver messo in contatto il regno dei vivi, con quello dei morti, perché mai avrei dovuto credere ad un’umanità arroccata in città sotterranee, prigioniera di paure ataviche, totalmente incapace di reagire?

Il futuro immaginato da Hideo Kojima restava in piedi solo ed esclusivamente per merito di temerari corrieri, che equipaggiati di tutto punto, fronteggiavano i folli Mule, si facevano beffe delle CA e sfidavano il rischio di essere risucchiati in una dimensione da cui non c’è (più o meno) scampo, creando al contempo una voragine che avrebbe potuto condannare migliaia di innocenti ad una sorte simile. Corrieri, non supereroi o soldati addestrati e pronti a tutto, gli unici in grado di riconnettere un mondo che, letteralmente senza internet, ha perso la memoria, le istruzioni per fare funzionare tutto, i tutorial su YouTube per svolgere anche le più semplici operazioni quotidiane.

 

Death Stranding director

 

“Giocare a Death Stranding Director’s Cut è stato un po’ come sperimentare il disturbo post-traumatico da stress”Strideva, nella mia testa, il contrasto tra tecnologia avveniristica e problematiche così invalidanti, così distruttive e limitanti. Un lockdown dopo, è inevitabile rileggere con occhio totalmente differente Death Stranding, più un’allegoria di un probabile ed immediato futuro (estremamente immediato, si può dire con il senno di poi), che un’opera sci-fi che pretende di mantenere intatta la sospensione dell’incredulità lungo tutta la sua durata. Giocare a Death Stranding Director’s Cut è stato un po’ come sperimentare il disturbo post-traumatico da stress. Lievemente lontani dalla zona di guerra, in quest’estate in cui sono venute a mancare buona parte delle restrizioni che hanno caratterizzato il 2020 e parte del 2021, rimettermi nei panni di Sam Porter è stato come rincontrare quei fantasmi conosciuti durante il lockdown.

Il COVID-19, invisibile e impalpabile anch’esso, differisce idealmente di poco dalle CA, pronto a trascinare il malcapitato in una dimensione, anche nella migliore delle ipotesi, fatta di ansia, paura, tensione. Il lockdown stesso ha dimostrato empiricamente che un mondo frammentato e diviso, dove comunicare è difficile e vedere i propri cari è impossibile, non è affatto roba da fantascienza.

Il simulatore di corriere, come abbiamo già avuto modo di sottolineare in sede di recensione, si è tramutato in una metafora romanzata del mondo reale, anch’esso popolato, fortunatamente, da eroi temerari, instancabili professionisti che in qualche modo hanno salvaguardato le connessioni dei singoli con il mondo, consegnando a domicilio cibo, gadget, oggetti, videogiochi, regali per chi compiva gli anni proprio nei giorni in cui qualsiasi festeggiamento era persino vietato.

C’è stata anche un’altra immagine mentale che questa Death Stranding Director’s Cut ha riesumato, un ricordo agrodolce, particolarmente simbolico e significativo nell’arco di questa lotta alla pandemia. Viaggiare ai comandi di una moto elettrica, caricando il buon Sam di medicinali fin sopra la testa, mi ha fatto tornare in mente le immagini televisive dei primi furgoni pieni di vaccini, diretti verso le strutture in cui poi sarebbero stati somministrati ai primi richiedenti. Le polemiche relative alla lentezza dei mezzi scelti, all’eccessiva cura che veniva riservata al loro carico, alla necessità, inutile o utile che realmente fosse, di mantenere le provette ad una determinata temperatura, alimentarono per diversi giorni il tamtam mediatico.

 

Death Stranding

 

Probabilmente se tutto il mondo avesse giocato con la produzione di Kojima, il ritrovarsi costantemente in lotta non solo contro le CA, ma anche con gli effetti deterioranti della Cronopioggia, avrebbe stroncato sul nascere certe speculazioni, rendendo più semplice e diretto il capire perché tanta cura, fretta, ma anche difficoltà nel traporto dei vaccini.

Non è stato né facile, né piacevole in certi momenti giocare a Death Stranding Director’s Cut. Di certo, questa seconda chance post-lockdown è servita per meglio carpire e recepire il messaggio diluito e disciolto nell’avventura da Hideo Kojima. Perché, infondo lo è sempre stato, anche la fantascienza più surreale e bizzarra non è altro che una rilettura più o meno allegorica di certe tendenze e di certi scenari del presente.

E una volta in più ho imparato questa lezione sulla mia stessa pelle.