Di recente ha lavorato a Kingsman: Il Cerchio D’Oro diretto da Matthew Vaughn e poi a Mute, di Duncan Jones. Prima ancora a Dunkirk e a Wonder Woman. Il percorso di Gianluca Dentici, italiano figlio d’arte dal grande talento, negli ultimi due anni e mezzo è stato costellato da soddisfazioni e traguardi importantissimi: il trionfo più grande è arrivato lo scorso febbraio, quando Il Libro della Giungla di Jon Favreau (a cui ha lavorato come digital compositor) ha ottenuto l’ambitissima statuetta.

Qualche mese fa abbiamo avuto l’opportunità di scambiare due chiacchiere con Gianluca che ci ha parlato un po’ del suo mondo, del suo passato e delle sue ambizioni. Ve ne proponiamo una trascrizione qui di seguito.
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Come ti sei formato e qual è il film che ti ha fatto appassionare al mondo del cinema?
Innanzitutto sono figlio d’arte, mio padre è il noto scenografo Marco Dentici, ancora in attività. Ho frequentato i set fin da piccolo, avevo 3 anni la prima volta che ho messo piede in un teatro di posa, scorrazzavo tra macchine da presa e attrezzature già dalla tenera età quindi ho sempre avuto un certo fascino per questo mondo. Vivere il set mi ha in qualche modo facilitato perché rispetto ad altri avevo ben presto acquisito una chiara idea di come funzionasse questo mondo, delle professionalità coinvolte e soprattutto del rispetto dei ruoli.

La figura paterna è stata molto importante per me, ricordo ancora quando nel 1982 mio padre mi portò al cinema a vedere E.T. – L’Extraterrestre, e a bocca aperta guardando lo schermo gli dissi: “Papà, io voglio fare quello”.

Dopo la mia formazione tradizionale (medie e superiori), arrivato il momento di scegliere un percorso accademico, ho scoperto che era nata da poco l’Accademia di Effetti Speciali di Carlo Rambaldi, il creatore di ET, Alien e King Kong. È stato un vero e proprio sogno per me frequentare la sua Accademia: Carlo era una persona fantastica e umile, un riferimento al quale ispirarsi e da cui rubare il più possibile. Non si concentrava molto nella spiegazione vera e propria di come realizzava le sue cose, tutto quello che ti bastava per apprendere era semplicemente guardarlo lavorare.

Nell’arco dei tre anni accademici ho avuto modo di toccar con mano diverse discipline come l’animatronica, il modellismo, la computer grafica e lo studio della sceneggiatura e della fotografia.
Io poi ho scelto la strada della computer grafica. Dopo l’Accademia ho cominciato a lavorare per una società di Roma, poi per un’altra per altri 7 anni. Subito dopo aver terminato questa esperienza ho fondato una mia società in cui ho lavorato come supervisore per 4 anni e mezzo.

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Perché hai lasciato l’Italia?
Me ne sono andato perché l’Italia è un paese difficile in cui lavorare. Per chi vuole fare questo mestiere la soddisfazione più grande è certamente quella di poter lavorare a grandi film con molti effetti visivi. Le fiction o i film italiani – per quanto alcuni possano essere prodotti interessanti – dal punto di vista tecnico-visivo sono poco soddisfacenti, puntare all’estero è stato quindi necessario per esprimere al meglio la mia creatività.

E poi in Italia ci sono tanti altri problemi. Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, anche perché nel mio paese ho avuto tante soddisfazioni, ma il vero problema era farsi pagare. In Italia c’è il concetto del “ti pago quando mi ricordo”. Con la mia società ho avuto parecchi problemi perché sin da subito abbiamo scelto di essere onesti, ma quando devi pagare le tasse, le persone che lavorano per te, le licenze dei software, e l’affitto degli uffici, c’è bisogno che i clienti ti paghino con regolarità, ed invece con la scusa della crisi alcuni atteggiamenti “una tantum” finivano per diventare la norma. A un certo punto ho deciso che non volevo più soffrire lavorando a prodotti che non mi davano soddisfazione e soprattutto a questo prezzo, così sono letteralmente fuggito a Londra.

Ho iniziato a lavorare per la MPC su Exodus, poi è toccato a Terminator: Genisys e successivamente al Libro della Giungla. La differenza è stata evidente sin dal principio, in quanto da subito hanno riconosciuto la mia esperienza e quindi una alta seniority, pertanto sono entrato nella società con il titolo di senior compositor.

C’è ancora un po’ di strada da percorrere, mi piacerebbe un giorno ricoprire il ruolo di supervisore per qualche grossa produzione. Qui si lavora duramente, ma c’è molta meritocrazia. Dopo MPC, sono passato a Double Negative, con cui ho lavorato per film come “Inferno” di Ron Howard, “Animali Fantastici e Dove Trovarli” e “Assassin’s Creed”, poi “Wonder Woman” e “Dunkirk”.

L’impatto con una nuova realtà come la MPC è stato difficile?
Avevo già una consolidata esperienza perciò ero abbastanza pronto da un punto di vista tecnico. È chiaro che lavorare su progetti con tanta CGI era raro in Italia, perciò ho avvertito una certa pesantezza del lavoro soprattutto perché a primo impatto adattarsi a queste mostruose pipeline di lavoro è sempre un po’ ostico.

Per questi progetti c’è una strutturazione tecnica pazzesca: quando devi gestire 600-1000 persone ci sono protocolli da seguire sul tipo di relazioni con superiori e colleghi, sulla terminologia che devi utilizzare, sulla riservatezza dei dati. Tutto quello che facciamo in ufficio è segretissimo: di molte cose non possiamo nemmeno parlare fino all’uscita del film o addirittura del Blu-Ray. Qui comunque ho notato che i talenti italiani sono molto apprezzati per l’estro creativo e la preparazione tecnica anche se gli inglesi dal punto di vista organizzativo sono imbattibili. Credo che dovremmo imparare molto da loro riguardo il management aziendale e non solo relativamente a questo settore.

Curiosità: quando una major ha bisogno di un una serie di effetti visivi so che si affida a più aziende. In base a quale criterio si scegliere cosa affidare a chi?
Questo discorso dipende dalla grandezza del film. Ad Animali Fantastici e Dove Trovarli, ad esempio, hanno lavorato quasi tutte le società di Londra perché c’era davvero tanto lavoro. Ovviamente tutto dipende anche dall’offerta economica che le aziende propongono alle produzioni, quindi spesso accade che i pacchetti di sequenze di un film vengano smistati in base a criteri qualitativi (c’è chi è più portato per le creature in CGI, chi per le estensioni digitali del set e così via). Il caso del Libro della Giungla è stato diverso perché il film è stato acquisito quasi interamente dalla MPC, solo una sequenza è andata a WETA in nuova Zelanda, quindi chiaramente tutte le sedi di MPC nel mondo vi hanno lavorato.

Mi è capitato di vedere trailer con effetti visivi ancora in fase embrionale. Questo come viene vissuto dal vostro punto di vista? 
A volte rimaniamo un po’ delusi perché non è una scelta che dipende da noi, spesso la nostra produzione interna è costretta a consegnare delle inquadrature per i trailer anche se sono ancora incomplete, ma quando il regista crede che siano sufficienti per il trailer ovviamente lui ne è padrone e quindi ne può disporre a suo piacimento. C’è anche un altro risvolto della medaglia in quanto se è vero che lavorare su un’inquadratura del trailer fa sempre piacere è pur vero che la pressione sugli artisti aumenta molto: bisogna portare a termine una determinata inquadratura nei tempi utili all’uscita del trailer e nel miglior modo possibile, nonostante si tratti di una versione temporanea.

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Ti è mai capitato di dover consegnare un prodotto non soddisfacente?
È successo poche volte, anche perché il controllo che viene fatto sull’immagine è impressionante. Una volta che il regista approva un’inquadratura inizia un procedimento denominato “tech check”. L’inquadratura deve quindi non solo essere visivamente bella, ma tecnicamente perfetta. Sono cose che lo spettatore comune non nota, ma secondo i canoni del controllo qualità lo shot deve essere ineccepibile. L’idea è che se fermi un fotogramma, quello deve essere perfetto. Si tratta di una procedura standard che operano tutte le società per cui ho lavorato, in cui ci sono figure adibite esclusivamente a questo compito: il compositing supervisor è infatti l’ultimo che decide se lo shot può essere consegnato perché corretto dal punto di vista tecnico. È anche vero però che a volte queste verifiche tecniche sono imperfette per mancanza di tempo.

Si parla di progresso tecnologico, di limiti della tecnologia. Qual è il tuo parere sull’uso di controfigure digitali?
Personalmente ancora ad oggi mi infastidice quando mi accorgo di un primo piano digitale, perché noto la sua plasticità. Durante tutti i giorni della nostra vita, da quando nasciamo, abbiamo a che fare con il volto di persone reali, perciò la CGI, nonostante oggi abbia raggiunto un altissimo grado di perfezione, non convince ancora nell’emulare la vitalità di uno sguardo umano. Per quanto riguarda la pelle il realismo è molto vicino, ma quando si parla degli occhi noto ancora uno sguardo spento, vitreo, senza anima. Quando ho visto i primi piani di Leia e Tarkin nell’ultimo Star Wars sono rimasto molto deluso. Mi rendo conto che non si poteva fare altrimenti, ma si potevano forse usare espedienti di ripresa differenti, come inquadrature un po’ meno dirette – fare dei primi piani così importanti è stato un azzardo. Per quanto riguarda gli attori di contorno, scene d’azione e stunt credo che siamo oramai arrivati ad un punto per cui gli stuntmen potrebbero cominciare ad aspettarsi di lavorare di meno. Mentre lavoravo ad Exodus – Dei e Re, ricordo di aver visto inquadrature a campo medio in cui non riuscivo a distinguere le persone vere da quelle generate in CGI.

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Il Libro della Giungla è stato un incredibile traguardo per te visto che ti ha portato all’Oscar…
Si, e il merito va alla MPC che rispetto a molte altre società ha sviluppato dei sistemi di motori di rendering e procedure di lavoro davvero incredibili, è stato un lavoro clamoroso. Con Il Libro della Giungla abbiamo raggiunto uno sviluppo tecnologico impressionante ed è questo che l’Accademy ha premiato. Abbiamo sperimentato tanto anche nella fase di compositing ed il film di Jon Favreau è stato quello che noi chiamiamo uno “ stereo show from day 1” – nel senso che è girato in 3D nativo. La post-produzione è stata quindi tutta impostata in 3D stereoscopico e quindi molto più complicata. Per il compositing abbiamo avuto a che fare con due stream di dati, uno per il canale sinistro e per il destro con conseguente appesantimento della pipeline di lavoro.

E poi ovviamente per quanto riguarda la fase di tech check di cui ti parlavo prima, oltre a quella usuale abbiamo dovuto affrontare anche quella stereo, cioè un controllo di tipo stereografico. Non nascondo che il lavoro talvolta diventava frustrante, alla fine però ne è valsa la pena, i nostri sforzi ci hanno ripagato molto bene! A quanto mi risulta, l’investimento che ha fatto la Disney su questo lavoro è stato il più cospicuo dal ’67 a oggi. Hanno investito una cifra incredibile perché confidavano ciecamente in questo progetto. E non è finita qui: è già in programma Il Libro della Giungla 2 ed un adattamento del Re Leone, sempre diretto da Jon Favreau.

A quali sequenze hai lavorato nello specifico?
Ho lavorato in particolare al concilio dei lupi sotto la pioggia, all’incontro con Mowgli e i
lupi, all’inseguimento nel campo di grano con Shere Khan, e infine ad alcune inquadrature con la foresta in fiamme.

Per Animali Fantastici: e Dove Trovarli, invece?
Lì avevamo due gruppi di lavoro presso Double Negative: io ho fatto parte del team Obscurus che ha curato la battaglia finale nella città. Insieme ad un altro artista della sede di Vancouver ho anche sviluppato il look dei raggi delle bacchette. È stato un lavoro estremamente soddisfacente perché sono stato coinvolto nel team di lavoro fin dall’inizio. Per il film la produzione ha messo insieme i migliori del settore: un supervisore premio Oscar e coordinatori davvero in gamba che hanno saputo gestire l’organizzazione in maniera eccellente. È stata una bellissima esperienza. Ovviamente alla fine della lavorazione, come di consueto avviene, siamo stati invitati alla proiezione privata del film, tutta dedicata alle società che vi hanno lavorato e abbiamo riempito tutte le sale del cinema Vue di Leicester Square; durante questa occasione David Yates, il regista del film, è voluto essere presente per ringraziarci del lavoro svolto. È stato molto bello.

Il film che più hai apprezzato dal punto di vista degli effetti visivi negli ultimi tempi?
Visivamente ho apprezzato molto Doctor Strange. La Framestore ha curato tutta la parte “orientaleggiante” e il design degli incantesimi. Mi è piaciuta tantissimo la scena in cui plasmano la città: tecnicamente è stato necessario realizzare una generazione procedurale di elementi, un avanzamento tecnologico pazzesco. Per un periodo temevamo che vincesse l’Oscar visti questi traguardi.

Non hai temuto per Rogue One?
Adoro Star Wars, ma la cosa che la giuria tecnica dell’Academia premia è l’evoluzione tecnologica. In Doctor Strange e nel Libro della Giungla si trattava appunto di grande evoluzione tecnica. Il Libro della Giungla non ha solo vinto l’Oscar, ma anche Il VES AWARD (premio della Visual Effects Society di cui faccio parte) ed il BAFTA.

Quali consigli hai per chi si appassiona a questo mestiere?
Oggi come oggi non esiste più l’Accademia che ho frequentato io , ma ci sono diverse scuole di effetti visivi. Sono tutte piuttosto valide, io ho insegnato alla Gian Maria Volonté. Le aule sono attrezzate, e il percorso di studio degli effetti visivi dura due anni. Sono felice di poter dire che le persone uscite da
quel mio corso lavorano tutte quante in società italiane. Il problema però è che molte altre scuole che ci sono in giro preparano solo all’impiego di software specifici, ma il nostro lavoro è fatto anche di conoscenza cinematografica, di fotografia, quindi se impari il software non necessariamente puoi fare questo mestiere.

Io suggerisco di guardare tanti film perché ti forma, la visione contribuisce ad aumentare il gusto visivo. A questo si deve aggiungere la sperimentazione, perché guardare non basta. Serve anche leggere molto pubblicazioni tecniche e guardare anche i backstage. Io ho collaborato alla creazione di effetti visivi con registi e tecnici italiani che non avevano assolutamente idea di che cosa stessero facendo sul set, nonostante fossero nel campo da molti anni. Mi sono trovato anche ad insegnare a persone più grandi di me cose che avrebbero già dovuto sapere e in qualche caso sono rimasto un po’ sorpreso dalla mancanza totale di basi.

Per chi inizia quindi il consiglio è quello di trovare un posto in una società italiana per fare pratica: a quel punto bisogna tentare di crescere o cercare altre strade, ma questo dipende ovviamente dall’ambizione personale. Chiaramente visto che in Italia i progetti importanti dal punto di vista visivo sono molto rari, l’estero sembra essere l’unica via. C’è una società italiana che si è occupata ultimamente di alcuni degli effetti visivi dell’ultimo Independence Day, è stato bello scoprirlo, ma come dicevo si tratta di casi piuttosto sporadici. La speranza naturalmente è che ci sia un’inversione di tendenza e che anche il cinema di genere possa in qualche modo creare la domanda per un impiego di effetti visivi più massiccio.

La prima cosa che in Italia deve cambiare è la mentalità: quello che molti non capiscono è che il nostro lavoro è logorante e richiede forti competenze, non bastano due click per realizzare un’inquadratura bella come invece molti produttori pensano o ci fanno credere per sminuire il valore monetario del nostro lavoro. Inoltre quando ci si trova sotto consegna si finisce spesso per accantonare la vita privata e appendere l’amaca in ufficio. Chi ama questo lavoro sa a cosa mi riferisco. A me è successo tantissime volte, mi hanno fatto promesse e promesso soldi, tutta aria fritta. Un giorno ho detto basta e ho deciso di fare il salto. Ad oggi non vi è giorno che passa in cui non sia sempre più convinto di aver fatto la scelta giusta.

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