Credo dipenda dal fatto che Darren Aronofsky sia un regista ebreo ateo figlio di due genitori ultra-osservanti.

Fatto sta che fin da π – Il Teorema del delirio, echi di un misticismo religioso più o meno marcato sono riscontrabili da sempre nella sua filmografia, a prescindere dal fatto che l'artista in questione creda o meno nella presenza di una Mente ordinatrice e creatrice superiore.

Noah, in tal senso, è un punto di arrivo quasi obbligato, più diretto del complesso (complessato?) The Fountain – L'Albero della Vita, ma non per questo meno difficile.

Abbastanza curioso constatare come l'impianto visivo del kolossal prodotto dalla Paramount vada a ripescare a piene mani nell'estetica della Terra di Mezzo tolkeniana riletta da Peter Jackson innescando, di fatto, un loop, un inception di rimandi che sembra quasi una reductio ad unum. La Bibbia ha influenzato in larga parte il professor Tolkien nella creazione della storia della Terra di Mezzo, specie nel Silmarillion, e i film tolkeniani di Peter Jackson sono finiti per ispirare la messa in scena del lungometraggio di Darren Aronofsky.

E' tutto estremamente appropriato.

Evidente fin dal prologo in cui si fa cenno alla creazione del mondo – poi raccontata da Noah alla sua famiglia e mostrata dal regista con un time lapse da ammirare senza mai sbattere le palpebre per evitare di perdere anche un singolo fotogramma – alla cacciata dall'Eden di Adamo e Eva e alla vicenda di Caino e Abele. Il mezzo cinematografico, debitore dell'estetica jacksonian/tolkeniana, viene impiegato da Aronofsky per raccontare la sua “versione dei fatti” di un segmento del Pentateuco così fondamentale nell'allestimento dell'impianto storico della teogonia tolkeniana.

Ammetto che, alla fine della pellicola, i miei pensieri non sono stati subordinati in qualche maniera alle categorie critico/ermeneutiche/estetiche del “bello/brutto”. Più che altro mi sono trovato a dover far fronte a una complessità inattesa, nonostante l'abituale “frequentazione artistica” di Aronofsky. Con la consapevolezza che, già partendo da quegli Adamo ed Eva mostrati come figure fatte di luce, passando per la muta del serpente tentatore usata come tefillin, ho le conoscenze necessarie a scalfire solo la superficie di un'opera con dei passaggi che alcuni, banalmente, pigramente, o in base a chissà quale preconcetto, etichetteranno come kitsch, ma che invece richiamano in maniera fortissima ad “altro”. Un altro che io, almeno per il momento, non credo di poter afferrare in toto per mancanza degli strumenti atti a farlo. Meglio ribadirlo ancora una volta.

Che il lungometraggio avrebbe avuto diversi spunti di ragionamento era abbastanza ovvio. Nella Genesi la vicenda dell'Arca di Noah viene raccontata in poche pagine in cui però ogni singolo termine usato nasconde e racchiude un intero universo. Va bene scherzare su Facebook con i meme in cui la Bibbia viene mostrata nelle librerie nella categoria fantasy, per carità, ma non bisogna dimenticare che si tratta di un testo studiato “solo” da qualche migliaio di anni da non credenti e credenti.

Noah, il film, va a calcare la mano sul concetto, estremamente pragmatico, che l'uomo ha la funzione di custode di questo granello minuscolo di terra facente parte di un sistema solare a sua volta posto all'interno di una galassia inserita nel contesto di un (?) universo infinito (?) di cui sappiamo, tutto sommato, ben poco.

Il veganesimo o vegetarianesimo, il new age tirato in ballo da mezzo mondo in riferimento a Noah non c'entrano nulla. Sono parole utilizzate perché non si ha desiderio di spingere il proprio muso un po' più in là del dovuto. Il messaggio è estremamente più radicato nella nostra cultura di termini come quelli citati che oggi vanno di moda, fra dieci anni chissà.

Inoltre è un'idea sostanzialmente condivisibile a prescindere dalle posizioni in merito a fede, Dio e affini possedute dalle persone che in giro per lo stivale, e non solo, appoggeranno i propri glutei sulle poltroncine di un cinema dopo aver acquistato un biglietto del film.

E per farlo utilizza il testo biblico adattando e cambiando elementi come i Giganti di Pietra, Tubal-Cain, la sicumera di Noah che pare sfociare nella follia, la differente composizione della famiglia del patriarca, l'alimentazione a base di carne delle “legioni” dell'antagonista (quando prima del Diluvio uomini e animali non erano ancora carnivori) per rendere più chiaro il messaggio.

I primi personaggi che cito, i Nefilim, appaiono nella Genesi 6. 4:

I giganti erano sulla terra in quel tempo ed anche dopo che i figli di Dio si furono congiunti con le figlie dell'uomo e ne ebbero figli. Sono gli eroi dell'antichità, uomini famosi.

Il regista li interpreta come una sorta di Angeli caduti trasformati in “Ent di roccia” la cui essenza di luce è imprigionata proprio in conseguenza della loro mal riposta fiducia nell'uomo.

Solo che:

Il Signore vide che la malvagità dell'uomo nella terra era grande e che ogni creazione del pensiero dell'animo di lui era costantemente soltanto male (6, 5).

Un male concreto, non solo ideale. Per rendere ancora più forte la presenza di questo marciume reale, non vagheggiato, nel film la figura di Tubal-Cain, colui che nella Genesi 4, 22 viene introdotto come figlio di Tsillà “affilatore di tutti gli strumenti di rame e di ferro”, diventa ancor più il portatore di quel testimone di malvagità trasmessogli dal suo antenato Caino. Quello che ebbe la faccia tosta di domandare a Dio “sono forse io il custode di mio fratello?” (Genesi 7, 9).

L'opposizione fra Noah e il personaggio interpretato da Ray Winstone sta tutta nella differente concezione che i due hanno della loro creazione: il primo è consapevole del complicato, lacerante ruolo di custode che gli viene affidato dal Signore – e Aronofsky ce lo mostra con scene in cui non avviene un dialogo diretto con Dio come nei testi Sacri, ma con delle sequenze oniriche di rara forza che potrebbero portare a pensarci “ma non è che questo qua è anche un po' matto?” – mentre per il secondo l'essere fatto a immagine e somiglianza del Signore equivale al voler fare e, soprattutto, disfare a proprio piacimento.

Bersaglio mancato pienamente, direi.

Contrariamente al regista che unendo spettacolarità hollywoodiana e profonda conoscenza del materiale che si è trovato a manipolare ha confezionato un film che può essere gustato come un grandioso kolossal o come una storia capace di raccontare molto più di quanto non sembri in prima istanza.