Articolo a cura di Andrea Porta

Enrico Ghezzi e Hideo Kojima fanno una certa impressione visti insieme su un palco. Go meet your maker dicono gli americani, con un significato decisamente poco rassicurante, eppure proprio questo è successo pochi giorni fa in una sala privata del cinema The Space di via Santa Radegonda a Milano. Non che Ghezzi possa dirsi in alcun modo artefice dello stile visivo di Kojima, ma di certo alcuni suoi miti cinematografici, studiati a fondo nella sua carriera di critico, lo sono. Per chi non avesse familiarità con i due, Ghezzi (1952) è un celebre critico italiano, autore di diversi libri e prefazioni, nonché ideatore del format Fuori Orario: Cose (mai) Viste, noto contenitore di frammenti di un cinema sconosciuto agli utenti televisivi tradizionali (a partire dalla sigla, “rubata” nientemeno che all’Atalante di Vigot). Kojima (1963) è un autore di videogiochi giapponese il cui nome si è legato a doppio filo a quello di Metal Gear, celeberrima saga di videogame a sfondo fantascientifico, militare e spionistico. L’incontro è stato pienamente giustificato dal fatto che Kojima è universalmente riconosciuto come uno degli autori più “cinematografici” nell’ambiente dei videogiochi, tanto da meritarsi la definizione, forse poco gentile, di regista mancato. Oltre a contornare ogni sua opera di ore ed ore di sequenze filmate, spesso interessanti anche dal punto di vista stilistico, Kojima è noto per l’arte della citazione e dell’omaggio al grande cinema statunitense.

L’evento, parte del tour promozionale dedicato al lancio del nuovo videogame Metal Gear Rising: Revengeance, è stato naturalmente organizzato dal publisher italiano Halifax, e presentato da Gian Luca Rocco, giornalista presso TGCOM. Quest’ultimo ha ricordato proprio il legame “invisibile” tra questi due personaggi, mai incontratisi di persona eppure ben noti l’uno all’altro (pare che la scelta di Ghezzi come ospite dell’evento dipenda proprio da un suggerimento di Kojima), e ha chiuso elencando un bel numero di interessanti citazioni nascoste nei molti titoli firmati da Kojima, che vanno dal nome originale del protagonista di 1997: Fuga da New York (Snake Plissken, e non Jena come nella traduzione italiana), passando per il Kubrick di 2001 Odissea nello Spazio e Doctor Strangelove.

 

 

Finalmente insieme sul palco, i due si sono confrontati in una lunga intervista condotta da Ghezzi, la cui irrefrenabile, prorompente e spesso farraginosa dialettica ha creato qualche intoppo e si è spesso fatta oggetto di lost in translation. Fortunatamente, si è salvata la cosa più importante, ossia l’amore per il cinema, in grado di unire due personaggi separati quasi da un’intera generazione, dalla barriera linguistica, dalle banali difficoltà che un innamorato della celluloide e un cultore dei pixel possono talvolta avere a comunicare. Una vicinanza (o forse una comprensione, sebbene filtrata) riassunta da Ghezzi nel passo del libro Tutta la Vita di Alberto Savinio (fratello di De Chirico) che il critico ha voluto dedicare a Kojima: “Il treno si fermò in stazione. Lodovico era arrivato nella capitale del silenzio. Era estate e giorno pieno, ma anche nel sole era notte”.

Tornati su un piano più terreno, i due hanno discusso dell’importanza del frame rate, ossia il numero di fotogrammi al secondo proiettati sullo schermo, rivelandosi entrambi sostenitori di valori in questo senso elevati. Come già anticipato molti anni fa da Douglas Trumbull, direttore degli effetti visivi di 2001 Odissea nello Spazio e Blade Runner, un elevato numero di fotogrammi al secondo, sopra i 45, può portare ad aumentare la sensazione di profondità nell’immagine, quasi simulando l’effetto 3D.

Ghezzi ha successivamente chiesto a Kojima quanto si senta sostenitore della condensazione dell’esperienza audiovisiva e sensoriale, citando il passaggio dal cinema muto al sonoro, e le conseguenti critiche, a paragone delle evoluzioni tecnologiche dei nostri tempi. L’autore ha risposto con un aneddoto, risalente all’epoca dello sviluppo di Playstation 2.Quando il team di creativi e ingegneri di Sony l’aveva contattato chiedendogli quale caratteristica avrebbe voluto vedere inserita nella nuova console casalinga, Kojima aveva chiesto un sistema olfattivo, che fosse in grado di riprodurre odori coerenti con le varie situazioni di gioco possibili. Una richiesta senza dubbio bizzarra e fuori dal tempo, ma efficace nel sintetizzare la visione di Kojima, che vede nel videogioco un’esperienza di coinvolgimento a 360 gradi, sia con l’inserimento di nuovi meccanismi sensoriali, sia “giocando” con i mezzi già disponibili, ossia immagini e suono.

Nel complesso, un evento in molti momenti difficile da decifrare, e quasi controproducente, soprattutto se guardato con occhio cinico, in quanto esemplare nell’evidenziare quanto due culture differenti possano avere difficoltà nel confronto diretto. Eppure, tra le mille difficoltà di comunicazione, anche un bel momento, che ci ricorda come il rapporto tra cinema e videogiochi sia tutt’altro che scontato, non necessariamente e pedissequamente “imitativo”, ma anche sinergico, di mutuo apprendimento, oppure, perché no, di puro omaggio. Due culture che non devono necessariamente compenetrarsi, ma possono prendersi a braccetto, passeggiare per qualche istante, poi lasciarsi e proseguire ognuna per la sua strada, nondimeno arricchite da quei momenti di preziosa comunione.