“Ma che vuol dire punk a Grosseto?!” Intervista a Niccolò Falsetti e Francesco Turbanti su Margini

Sono passati ormai dieci anni da quando Niccolò Falsetti e Francesco Turbanti, scappati da Grosseto e dalla vita di provincia subito dopo il diploma al Classico, si sono ritrovati nella ormai leggendaria cucina di un appartamento in Via Trapani, a Roma. Proprio lì, guardandosi seriamente negli occhi, si sono detti: “Perché non scriviamo film sul punk?! È quello che vogliamo fare! Tu vuoi fare il regista, io voglio fare l’attore, ma di base viviamo e vibriamo di questa musica qua. Proviamoci!”. “Ma tu lo sai scrivere un film?”“No. E tu invece, lo sai scrivere?”“No, nemmeno io”. “Perfetto, allora partiamo”.

Quel film diventerà Margini (ora al cinema, distribuito da Fandango) manifesto punk non solo di una generazione – quella dei giovani della Grosseto del 2008 – ma di uno stile di vita. Un vero e proprio palco audiovisivo da cui i loro sventurati e amabili protagonisti potessero farsi riflesso di tutti i “disgraziati” come loro, pieni di un desiderio bruciante di costruire qualcosa di bello. O semplicemente di suonare un po’ di sano punk hardcore cercando di cambiare anche solo un po’ le cose.

Di questo e molto altro ne abbiamo parlato con il regista Niccolò Falsetti e l’attore e co-autore Francesco Turbanti.

Una cosa che mi ha colpito molto del film è stata la sua capacità di fare una cosa che il cinema italiano fa di rado, ovvero raccontare né gli ultimissimi né i borghesi ma la provincia e la classe media. L’esigenza di fare questo film viene da una volontà autobiografica o c’era anche già l’idea di raccontare un’Italia diversa?

Niccolò:

Sai è la prima volta che ci viene evidenziata la condizione di classe dei nostri personaggi. Sì, volevamo in generale provare ad accendere un riflettore su una zona lontana dagli epicentri e in cui tendenzialmente non si fa: come cantano i nostri amici de Gli Ultimi, “raccontare la storia di chi storia non ne ha”. In questo senso la marginalità è anche da questo punto vista, distanza dalle cose, far percepire tutto in maniere diversa da come succede nelle metropoli o nelle città più grandi, in una cittadina come Grosseto che ha una storia diversa. E poi c’è un’osservazione di fondo sul fatto che l’Italia è un paese di provincia, o meglio di province. La domanda che ci siamo fatti era un po’ quella: come stanno i ragazzi in provincia? La risposta che ci siamo dati è nata unendo le due nostre grandi passioni, il punk hardcore e il cinema, provando a creare una collisione di mondi aggressiva e di grande militanza in un posto in cui di queste cose non si sente il bisogno e che tendenzialmente è caratterizzato da calma piatta e silenzio placido…

Francesco:

La nostra idea inizialmente era di fare un adattamento del libro che ci aveva folgorato in adolescenza, “Costretti a sanguinare” di Marco Philopat, che parlava dell’esperienza del Virus, prima occupazione anarchica di punk a Milano degli anni Ottanta. Noi eravamo fomentatissimi, facevamo vedere i documentari in assemblea d’istituto al Classico a Grosseto, volevamo che tutti vedessero ‘sta roba di cui a nessuno fregava un cazzo ovviamente, eravamo completamente infottati. Poi a un certo punto, mentre ci mettiamo le mani anche concretamente, ci rendiamo conto che forse rispetto alla Milano degli anni Ottanta, per quanto bellissimo come periodo, non c’era un collegamento con le nostre vite, le nostre esigenze autoriali. Forse non ce ne fregava un cazzo di raccontare dei ragazzi degli anni Ottanta… perché noi non eravamo quei ragazzi lì. E abbiamo detto: “forse se c’abbiamo qualcosa da dire è raccontare quello che siamo stati noi. E noi siamo stati punk a Grosseto!”, e ci siamo messi a ridere. “Ma che significa punk a Grosseto, non vuol dire nulla!”. Era fuori da qualsiasi tipo di senso. E allora da lì ci siamo detti: aspetta, qui c’è qualcosa. Abbiamo incominciato a raccontarlo in giro e abbiamo trovato altri due disgraziati che ci hanno dato credito [ndr. ridono], cioè due produttori che anche loro si sono formati in quei dieci anni, ovvero Alessandro Amato e Luigi Chimenti di Dispàrte. Loro avevano appena aperto la loro società di produzione, erano freschi del diploma alla Volontè – parliamo del 2014 – e loro dicono, a casa mia in Porta Portese: “a noi ci piace un botto!”, e noi, “ma siete sicuri?” – “AVOJA!”. E da lì siamo partiti.

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I protagonisti di Margini sono Edoardo, Michele e Iacopo (Emanuele Linfatti, Francesco Turbanti, Matteo Creatini), amici da una vita e membri dei Wait for Nothing. Gasati per l’imminente concerto all’Estragon di Bologna dove apriranno ad una famosa band americana, i tre si ritroveranno a mani vuote dopo la cancellazione della data. Testardi, incazzati e decisi a non essere più “a due ore di distanza da tutto” decideranno allora di organizzare proprio a Grosseto quel concerto: ma la vita di provincia avrà in serbo per loro diversi ostacoli…

A parte i personaggi principali, quelli secondari sono quasi delle macchiette. Voi però siete riusciti a rendere bene la provincia soprattutto grazie a questo insieme di personaggi comici e grotteschi: ma è davvero tutto frutto dell’immaginazione?

Francesco:

Molti dei personaggi secondari, ma anche dei principali in realtà, sono tutti legati a degli incontri e a un mondo fatto di persone in carne ed ossa che abbiamo incontrato via via. Il batterista della nostra band leggendo la prima stesura ci ha detto: “Regà avete fatto un collage della nostra vita, state fuori di testa, che cazzo state a fà?”. Tutto per dirci occhio ragazzi, prendete un attimo distanza da questa roba, ed è stato in realtà un super consiglio perché poi siamo riusciti a dare una dignità drammaturgica maggiore e diversa ai personaggi, Però comunque hai ragione te, alcuni sono proprio omaggi: per esempio Gennaro, l’assistente di Loretta al comune che apre la sala ai ragazzi, è un omaggio a una persona che non c’è più, che c’aveva questa zoppìa e che in quartiere chiamavano “Tacco”. Ci sono alcune cose ancora più uno a uno, per esempio Loretta stessa è stata scovata dalla nostra segretaria di edizione. Stavamo facendo dei sopralluoghi al palazzo della Provincia per cercare dei punti macchina e la segretaria di edizione chiama Niccolò dicendo che doveva assolutamente fare il casting a questa persona perché sarebbe stata una Loretta perfetta… e lo è stata!

In Margini c’è tanta empatia vero i personaggi, che forse è la marcia in più del film. Penso per esempio al proprietario dell’Eden, personaggio incredibile con cui si deve misurare Edoardo e che non solo gli serve come conflitto ma anche come modo per crescere. Lo odiamo ma poi proviamo molta empatia e ne capiamo le ragioni. Come siete riusciti a creare questa empatia?

Niccolò:

È un obiettivo quasi ovvio che un autore che fa cinema si da. Non puoi prescindere dall’idea che pubblico deve emozionarsi e provare empatia per quello che vede sullo schermo. Poi proviamo empatia diversa, e simpatia. Proviamo empatia per Frank Underwood di House of Cards, per Travis Bickle di Taxi Driver, per personaggi che compiono scelte folli come Llewlyn Moss di Non è un paese per vecchi o per il Drugo de Il grande Lebowsky, che è un personaggio con cui non è per forza immediato empatizzare, data la sua pigrizia disarmante. Questo per dire che alla fine non empatizziamo con persone che ci sono vicine nelle scelte, nelle loro identità, in scala 1:1, come diceva Zerocalcare parlando di altre cose.

L’obiettivo rimane sempre quello di portare il pubblico a provare qualcosa, e questa cosa si fa attraverso i personaggi. Se c’è una roba che speriamo abbia portato lì, è il lavoro che abbiamo fatto sulla recitazione e i personaggi. Dal casting accuratissimo per scegliere Emanuele e Matteo [che interpretano il chitarrista e il bassista, ndr.]. Matteo veniva da un interesse nostro di lunga data. Manu l’abbiamo scoperto ai provini ed è stato uno di quei momenti in dicevi “Questo è Edoardo e non lo sapevo” non me l’ero immaginato così ma è più Edoardo di quello che ho scritto in qualche modo. Ci guardavamo dicendo “incredibile, ha delle cose che pensi dovrebbe avere questo personaggio”.

Per esempio?

Niccolò:

Il modo di parlare. Lui è di Roma ma aveva un toscano molto buono fin dai provini. Aveva delle sfumature dialettali che ci ricordavano qualcuno che viene dalla montagna. Ci sono delle zone in Toscana dove hanno una parlata simile, e ci immaginavamo uno che veniva dal paese e arrivava a Grosseto prendendo questa parlata strana. Poi il personaggio ha comunque in casa un patrigno che parla malissimo quindi in qualche modo aveva questa ulteriore legittimazione all’accento strano. Ma anche la postura di Emanuele quando interpreta Edoardo, non è la sua postura abituale ma ha un modo storto di stare che ci ha fatto ricordare tanti amici di quell’età. E quindi l’empatia secondo noi passa anche un po’ da quello.

Non volevamo che lo spettatore si sentisse preso in giro. Avendo un rapporto narrativo con la quotidianità volevamo provare a star dentro questa. L’altra grande cosa che ha aiutato tanto in questo senso è che questi tre disgraziati, per la nostra volontà di suonare la musica dal vivo, hanno imparato a suonare. Aver fatto le prove della band prima delle prove col copione è stato uno dei passaggi che ha creato fra noi una grande amicizia come quella che nasce in un gruppo, con sue divergenze e diversità ma con un legame che sentivi già forte dopo le prime ore insieme.

E il fatto di essersi messi molto in gioco, perché nessuno di loro suonava a parte Fra, che comunque suonava la chitarra in un gruppo punk [nel film suona la batteria, ndr.], molti avevano avuto una band ma c’era qualcosa da scoprire insieme e quella roba lì ha creato un grande legame e portato loro a capire delle sfumature dei loro personaggi che era difficile spiegare a voce o solo con la recitazione sul set.

Francesco:

Emanuele aveva già suonato ma in gruppi che facevano tutt’altro, musica indie. Il fatto è questo: per suonare punk non hai bisogno di saper suonare effettivamente, però in realtà richiede un approccio tutto suo, peculiare, che qualcosa devi saper fare per farlo BENE. Rischi certe volte che alcuni musicisti non sappiano convertire il proprio stile. Magari ad un jazzista, seppur un musicista incredibile, se gli fai fare un pezzo punk rischi che non abbia quella sporcizia che gli serve per tirar fuori qualcosa di realmente potente in questo genere musicale. Quindi abbiamo imparato a suonare punk tutti insieme. Io suono un altro strumento, la batteria era un ricordo di adolescenza quando mi misi a suonare in gruppo hardcore ma si durò poco, due mesi e due concerti…

Niccolò:

Grandissima band! [ridono, ndr.]

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La scrittura nel vostro film è praticamente impeccabile. C’è la commedia, c’è il dramma. E tutto ha una una fluidità proprio scenica veramente invidiabile. Com’è stato il processo di scrittura?

Niccolò:

Ci siamo messi a scrivere io e Francesco e siamo arrivati in due fino alle prime stesure. In realtà abbiamo saltato diverse numerazioni di stesura, tecnicamente se ne scrivono diverse numerandole finché non si battezza uno shooting script – noi invece soprattutto le prime due le abbiamo scritte tante volte senza mai completarle, scritte e buttate proprio. Però diciamo che le due stesure ufficiali, in cui abbiamo chiuso con due versioni piuttosto diverse della storia, le abbiamo scritte da soli ed è stata una grande palestra per noi per imparare a lavorare nel dettaglio e soprattutto con un’attenzione diversa perché questo film metteva in ballo tanto del nostro vissuto.

Finite le due stesure ci siamo impantanati sul finale. Avevamo un finale molto diverso da quello attuale e non riuscivamo ad uscire dalla sensazione che ci davano i nostri primi lettori, ovvero che il film avesse un lieto fine. Noi al contrario volevamo dargli una nota di amarezza, e non ci riuscivamo! Alla fine ci ha salvato Tommaso Renzoni [co-sceneggiatore, ndr.] che ci ha fatto fare una cosa fondamentale: prendere distanza dalla storia. Ci ha messo nell’ordine di idee che i personaggi andavano rispettati per quello che ne avevamo scritto e che dovevamo smetterla di volergli così tanto bene impedendo che si facessero del male. Dovevamo far fare loro le scelte non avevamo avuto il coraggio di fargli portare avanti fino in fondo. Quando ce le ha snocciolate lo sblocco è stato immediato: tutto ci sembrava così ovvio che ci sembrava assurdo non averci pensato prima. 

Ma quanto è cambiata la scrittura una volta sul set?

Niccolò:

L’intenzione nel processo di lavoro è sempre stata di far sì che il film in ogni nuova fase ricevesse nuovi contributi al progetto generale della sceneggiatura. Se la sceneggiatura poi non funziona a meno che non sei Scorsese non la battezzi storta, o non la cambi girando (ma quindi stai già riscrivendo in qualche modo). La fortuna che abbiamo avuto è che questo metodo e le persone che abbiamo incontrato lungo il sentiero ragionavano come noi e ci hanno sempre messo del loro. Da Francesco Ciarapica, che ci ha seguito sul set e nello scouting, a Davide Zurolo che ha fatto il casting, tutte queste persone ci hanno portato a scoprire cose nuove ed elementi di ricchezza per la sceneggiatura, poi i capi reparto, fotografia, scenografia, costumi, suono, colonna sonora… ognuno ci faceva fare un passo avanti rispetto alle cose che avevamo scritto senza mai snaturare la scrittura. Quando siamo arrivati sul set la cosa sorprendente per me è stata che dagli attori arrivava la risposta che la scrittura funzionava. Questa è stata la cosa più bella, vedere che quello che avevi scritto arrivava emotivamente, almeno vedendo le scene – poi sta al pubblico e alla critica parlare.

Francesco:

Io e Nicco spesso ci definiamo come una coppia di autori anomala, non siamo due sceneggiatori puri ma siamo di formazione uno un regista regista e uno un attore che insieme diventano autori e sviluppano le loro cose. Io in più ho formazione molto legata al teatro contemporaneo, la mia autorialità si è sviluppata lì – quindi ho dietro un lavoro collettivo con la mia compagnia e Nicco un lavoro in un collettivo di videomaker, quindi parte con lavoro pratico estremamente valido e fatto spesso – ecco questi ingredienti fanno la nostra caratteristica autoriale. Questa roba qua è la base, la formazione pratica e continua che abbiamo fatto in questi dieci anni prima dell’uscita di questo film. Poi a quella squadra si è aggiunto uno sceneggiatore puro [ndr. Tommaso Renzon], che padroneggiava la parte tecnica e strutturale, e ci ha fatto crescere sempre di più.

Quando lavoro a un film da attore, per altri e in situazioni in cui non ho scritto e io e non conosco così bene il regista da potermi confrontare sulla metodologia, io comunque cerco di fare un lavoro per “rimasticare” le battute, come si dice in gergo attoriale, ovvero riportarla a come parli te, dargli un’identità tua. Ecco questa cosa su Margini non è avvenuta perché questo lavoro avveniva già prima, in scrittura. Non c’è mai stata l’esigenza di tornare indietro ma sempre di aggiungere, pezzetto per pezzetto, limare, andare a raffinare. E questo è molto bello.

Parliamo un po’ di comicità. Molta deriva dal montaggio, per contrasti e aspettative. Per esempio quando i ragazzi suonano e poi vediamo che c’è un solo spettatore, oppure grazie a uno stacco con ellissi vediamo subito le conseguenze della scena prima, cioè loro in questura. Era già pensato in scrittura o è stato un lavoro fatto in post?

Niccolò:

Le due scene che mi citi erano pensate così da sempre. La scena dell’Eden, volendo fare il pelo, aveva ancora un paio di battute ma l’effetto comico veniva valorizzato ancora di più con la cesura, quindi ci siamo gasati. La comicità viene da un mix di senso dell’umorismo: io e Fra abbiamo il nostro, che c’era già in scrittura, e Stefano e Roberto, i montatori, hanno il loro e hanno lavorato in una fase diversa, quindi hanno messo entrambi degli accenti delle sfumature, trovato uno sguardo nuovo. Si dice che il montaggio è una seconda regia, beh è proprio così. In tante situazioni, es. pause Loretta, tempi comici su Gennaro quando si blocca… tante di queste cose sono state valorizzate da un montaggio attento di due bravissimi montatori. Anche perché io e Fra siamo due rompipalle, quindi non passava niente…

E poi la scena della festa dell’unità ancora di più ha zoppicato molto a lungo. Non riuscivamo a capire se funzionava l’effetto che hai appena descritto, che invece siamo felici che ora funzioni bene. All’inizio non riuscivamo a trovare una quadra, ci sembrava che la parte suonata non avesse abbastanza energia e lo stacco abbastanza impatto sul pubblico. Ci abbiamo lavorato tanto e abbiamo capito che il problema non era quella scena ma come arrivavi a quella scena. Abbiamo capito che arrivandoci in maniera diversa e utilizzando anche il suono, altra roba su cui abbiamo lavorato molto, creavi il giusto effetto e quindi ci siamo veramente gasati.

La colonna sonora di Margini è un tripudio di grandi pezzi del punk hardcore italiano e non solo. Pensarla, per voi che siete anche musicisti, sarà stato fighissimo! Come avete scelto i pezzi?

Francesco:

Erano i pezzi della nostra adolescenza. La prima idea, dieci anni fa, era quella che il film suonasse della musica che ascoltiamo noi, che ascoltano i personaggi. A quell’età quando cominci ad ascoltare il punk è come una malattia dal punto di vista musicale, sei come bruciato, lo ascolti a ruota, continuamente, e quindi il punk diventa concretamente la colonna sonora della tua vita. Quindi il passaggio è stato naturale. Per quanto riguarda la selezione dei pezzi, all’inizio tiravamo fuori dei nomi famosi non solo in Italia ma che hanno fatto la storia di questo genere come i Nabat, i Negazione, i Kina, e pensavamo che sarebbero stati irraggiungibili, che non ci avrebbero mai dato i pezzi. Invece poi una volta partiti per contattarli grazia al lavoro incredibile che hanno fatto Alessandro Pieravanti, che ha curato tutta la parte musicale, e Maurizio Papacchioli, che tra l’altro è il cantante degli Ultimi, band presente più volte nel film, loro sono riusciti a contattare tutti i gruppi che avevamo richiesto e tutti i gruppi, compresi i Negazione, i Rappresaglia e i Kina hanno partecipato con grande entusiasmo, tant’è che con parte di loro siamo diventati anche amici. Gianpiero Capra dei Kina ci ha seguito per tutta la lavorazione, ci ha letto tutte le stesure, è venuto sul set al concerto dell’ultima scena… si è creato proprio un rapporto che quando eravamo nella nostra cameretta ad immaginare delle belle musiche punk per il nostro film non immaginavamo certo questo tipo di conclusione.

Che poi la colonna sonora è costruita totalmente in maniera diegetica, cioè proviene da fonti sonore che sono solamente dentro la scena.

Francesco:

Assolutamente. Non c’è un compositore su questo film, tutte le musiche che ci sono provengono dalla diegesi: una cassa, uno stereo, una macchina, delle cuffiette… eccetera eccetera.

Margini 3

Nel vostro film l’idea di sottocultura è fondamentale, ma non solo in senso musicale: penso per esempio all’illustrazione. Zerocalcare ha disegnato il poster dei Wait for Nothing e fa anche una comparsata audio. Non è “spiattellato” ma può essere colto da chi ha più occhio e orecchio. Oltre a lui però hanno partecipato artisti come Lorenz e Marcello Crescenzi: c’è quindi un’idea più generale di dare dignità e rilievo a questa forma artistica?

Niccolò:

Noi mettiamo la nostra cultura fondamentalmente. O meglio, fa parte della nostra cultura, del nostro immaginario. Ci ha condizionato. Quando scopri il punk e sei ragazzetto diventa totalizzate: non solo in ambito musicale, ma di attitudine. Ci vai a scuola, influenza il modo in cui ti rapporti con gli altri, cosa scegli di vedere al cinema o in tv… diventa una sorta di scuola di vita punk, che però fai a GROSSETO. Quindi il grottesco è sempre dietro l’angolo…

Michele [Michele Rech, appunto Zerocalcare, ndr.] quando poi ci siamo parlati con un po’ più di confidenza, ci diceva: “io non sapevo fare un cazzo, tutti suonavano, avevano una band, magari un fonico, si sbattevano per fare serate e concerti. Io sapevo disegnare e mi sono messo a disegnare per la scena, poi chi sapeva suonare faceva musica”. Che poi è proprio in quei luoghi dove si anima tutt’ora la vita di questa scena: è lì che ci si incontra, ci si confronta. Sono eventi che avvengono per lo più in centri sociali, che invece sono sempre meno. Ne parlavamo anche ora con amici di Perugia: la mancanza di centri sociali si ripercuote a vari livelli sulle difficoltà sia di chi è giovane sia di chi non lo è più tanto. Secondo noi dopo Genova e il lento e progressivo smantellamento di questi spazi è avvenuta la mancanza della possibilità di ritrovarsi, aggregarsi, affrontare problemi, fare politica insieme.

Scusa la parentesi, ma era per tornare a dire che il contributo di Michele è stato importante: Michele ha davvero disegnato per la scena una quantità di copertine di dischi e locandine a cui noi abbiamo assistito, o che abbiamo avuto o che abbiamo tutt’ora in una maniera così consistente e costante che era scontato a un certo punto chiedere, quando si doveva fare la copertina del disco nuovo: “chi te la fa?” e non era manco Zerocalcare ma “quello di Roma, quello che ha fatto la locandina dei…”. E dicevi “ah certo lui!”.

Noi raccontiamo sempre questo aneddoto. Lui per un periodo collaborando con dei ragazzi aveva aperto questa agenzia grafica che si chiamava “Garageland” e noi gli chiedemmo le grafiche del disco. Un altro collettivo grafico punk gli aveva detto di chiedere dei rimborsi perché farlo gratis era un modo di distruggere la sostenibilità economica delle collaborazioni, e lui allora inizia a chiedere quaranta euro di rimborsi per le grafiche. Tra queste band c’eravamo noi, che al tempo quaranta euro non ce li avevamo e gli abbiamo detto “no guarda grazie, scusaci, arrivederci”. Lui poi anni dopo quando siamo andati a raccontargli del film e a presentargli il progetto ci ha detto: “io li ho chiesti a voi e ad altre due band, mi han detto tutti di no e ho smesso di chiederli perché era ridicolo altrimenti non riuscivo nemmeno a contribuire in quel modo”. Questa cosa Michele quando la raccontiamo ci infama sempre perché pensa di passare male lui, quando di fatto lui ci ha chiesto dei soldi come una persona normale che cerca di dare una progettualità alle cose. Invece noi per quaranta euro non siamo finiti nella storia del fumetto e dell’illustrazione italiana…

Dal momento in cui gli abbiamo presentato il progetto l’idea del cameo vocale è arrivata molto dopo. Invece l’idea che locandina fosse di uno di Roma era esattamente il modo in cui volevamo raccontare il punk di quella scena.

Francesco:

I dischi punk all’epoca erano naturalmente illustrati da lui, e quindi per noi era naturale che locandina di un film che viene da quel mondo fosse illustrata di lui. C’è qualcosa di naturale in tutto questo: la tribù è la stessa.

Niccolò:

Non diciamo troppe cose che poi Michele si imbarazza…

Poi il rapporto lo racconta bene anche lui, se andate sulla sua pagina c’è una striscia su Margini dove racconta benissimo il modo in cui l’abbiamo stalkerato per sette anni e racconta bene anche il nostro disagio, di ogni volta che lo incontravamo e dicevamo “cazzo c’è Michele, tocca raccontargli di questo film. Ma poi è passato un altro anno, avevamo detto che si iniziava ora, che figura di merda, ora non so se salutare… se lo incontriamo gli diciamo “Oh bella”, ma così di sfuggita”. Quindi c’era questo disagio eterno. E invece il progetto con gli altri illustratori era un modo spontaneo di cercare di raccontare col linguaggio del nostro mondo provenienza. L’illustrazione è una di quelle e sono tutti illustratori e illustratrici che vengono dall’underground e ci piaceva creare questo progetto grafico che ha curato Michele in persona e che si chiama “Cartolina della provincia”, dove ci sono Lorenzo Ceccotti, Marcello Crescenzi, Mad Kime, Mayo, Nova, Serena Schinaia, Silvia Sicks, Tommy Gun, Simone Lucciola, Marco About. Tutti hanno fatto un lavoro meraviglioso.

Niccolò, tu hai lavorato e lavori spesso con i Manetti sulla serialità e ti occupi anche di documentario e di pubblicità, insomma hai a che fare con diversi linguaggi audiovisivi. Dopo questo esordio al lungometraggio hai intenzione di concentrarti su questo?

Niccolò:

Il cinema è il primo amore, non cambia quella cosa lì. Ho voluto imparare a fare questo mestiere perché per me è il più soddisfacente. Credo nel super potere del cinema e in una sala piena è il momento in cui questo super potere è al suo massimo livello: ci si emoziona insieme, si piange insieme, si ride insieme… Più in generale rimango però fedele a una linea che mi ero dato ragazzetto, ovvero che questo mestiere mi piace farlo a 360 gradi: mi piace fare videoclip, mi diverto con la pubblicità (non sempre), con i documentari… È tutta roba che mi è piaciuto fare fin ora e che ho sempre voluto ripetere. Mi sento molto fortunato.

Anche la serialità coi Manetti è qualcosa che mi è sempre piaciuto fare. Loro hanno un modo di dare spazio e fiducia alle persone che è unico, ed è successo anche con noi come co-produttori. C’è stata una fiducia totale sulle nostre scelte e un appoggio costante, iniezioni di fiducia o anche schicchere quando sbagliavamo. Con loro non senti mai di lavorare per qualcuno ma con qualcuno, ti senti in pari e stai benissimo. Questa cosa qui spero anche di averla mutuata nel nostro metodo perché è una cosa che a me e Fra piace tanto.

Francesco, per te la domanda invece va sul rapporto tra recitazione e scrittura. La scrittura è una cosa che pensi di portare avanti, anche da solo, o rimane una cosa che vuoi fare solo con Niccolò?

Francesco:

Mi riallaccio a quello che ti dicevo sul percorso fatto su Margini. Margini è stata la locomotiva del mio percorso formativo da autore di questi ultimi anni. Nel momento in cui da quella cucina di Via Trapani abbiamo detto con Nicco “facciamo il film” ho scoperto un mondo… Io partivo dall’essere attore e già mi domandavo cosa significasse essere attore e allo stesso tempo autore. Una delle domande che mi piace continuare a farmi quando lavoro come attore è: qual è il mio grado di autorialità nell’essere attore? E quindi da quel momento ho scoperto che l’autorialità e quindi la scrittura mi interessava e l’ho sviluppato su più linguaggi e più campi, tra cui il teatro. Ho scritto per il teatro e per la compagnia per tanti anni, stiamo continuando a scrivere sia con Nicco che con altre persone e quindi continuare a farmi questa domanda e che tipo di declinazione può avere questo tipo di approccio è qualcosa che mi interessa molto, come ricerca personale e artistica. La risposta quindi è sì. Le forme e le modalità le scopriremo strada facendo ma soprattutto insieme. Non mi vedo da solo in questo tipo di percorso. Nicco sicuramente è il primo interlocutore ma ce ne sono anche altri e vediamo che succede.

Cosa ne pensi della nostra intervista agli autori di Margini? Scrivetelo nei commenti!

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