Nel mondo del cinema, e in particolare nell’industria di Hollywood, il declino delle superstar sotto il peso della depressione e della droga fa notizia. I tabloid hanno riempito le proprie pagine per anni con queste storie morbose. Oggi, rispetto a una quindicina di anni fa, i drammi personali dei lavoratori dello spettacolo sono osservati con un occhio di poco più attento. Anche all’interno dell’industria si cerca di curare maggiormente la salute dei dipendenti. Importantissimi in tal senso sono le cliniche di cura e prevenzione. Molte sono frequentate dai ricchissimi di Hollywood (o dai loro cari). Alcune di queste si pongono come c’entri d’eccellenza esclusivi e costosissimi. Eppure, anche dietro queste realtà, può celarsi un ingranaggio criminale che schiaccia i pazienti e li porta alla morte.

È questo il contenuto della scottante inchiesta recentemente pubblicata dal The Hollywood Reporter. L’articolo tratta il caso di una clinica chiamata Red Door, considerata uno dei luoghi più gettonati per ricchi attori e imprenditori dello spettacolo, che propone cure alternative. Un luogo di alto profilo che dovrebbe aiutare le persone con terapie innovative. Lo scenario che emerge è invece tutt’altro che rassicurante.

Red Door è stata fondata da Alex Shohet insieme alla moglie Bernardine Fried e segue una particolare filosofia di cura, secondo cui è più sicuro tenere vicine le persone con la dipendenza per instradarle in scelte migliori con il tempo, che lasciarle al proprio destino. Spesso assecondando anche la loro tendenza autodistruttiva. Red Door si pubblicizza infatti come “fornitrice di servizi olistici basati sull’attaccamento, che opera secondo una prospettiva trauma-informed (prestando attenzione alla storia del paziente NdR) e individualizzati”.

Il che significa che, una volta all’interno della struttura, i pazienti sono incoraggiati ad assumere droghe in maniera “sicura”, secondo una politica di “riduzione del danno”. Il concetto è, sostanzialmente, che una persona può trovare nella clinica un modo per abbandonare gradualmente la dipendenza, assumendo nel frattempo le sostanze in un ambiente sicuro, in cui si riduce il rischio, ad esempio, di iniettarsi con un ago infetto.

Una pratica lassista, che ha portato a diverse morti sospette. In particolare due piuttosto recenti hanno attirato l’attenzione della stampa sul caso. Nel 2020 una ragazza di vent’anni è stata ritrovata in overdose nel retro della struttura Red Door. La combinazione di droghe le fu fatale. Era entrata nella clinica, nota l’articolo, per combattere la depressione, non la dipendenza da droghe. 

Poche settimane dopo, all’inizio del 2021 un uomo di 36 anni morì per overdose. Anche il suo caso venne sottovalutato da Red Door che bollò come un’eventualità possibile nel percorso di guarigione il fatto che non tutti potessero farcela. Sono diversi i casi come questo. 

Secondo diverse testimonianze (una ventina, dice l’articolo), Shohet mirava a diventare una sorta di accompagnatore. Otteneva la fiducia dei ricchi clienti o dei loro figli che venivano ricoverati nella sua struttura. Si faceva affidare la responsabilità delle finanze delle star, che usava poi per comprare le droghe che gli offriva. Non solo: usando come leva la debolezza dei pazienti, li convinceva a donare soldi e a finanziare i progetti della società. 

Insomma: i ricchi di Hollywood nella clinica non hanno trovato uno strumento per liberarsi dalle dipendenze, ma uno spazio sicuro dove continuarle. Mentalmente plagiati, presi nel momento di massima debolezza per loro e la loro famiglia, hanno finanziato le acquisizioni volute dai due fondatori. I discutibili metodi di cura, non solo non hanno portato giovamento, ma talvolta alcuni ospiti della struttura sono morti a causa di cure troppo permissive e controproducenti.

Alex Shohet e Bernardine Fried si pongono come dei guru della medicina. L’Hollywood Reporter sottolinea però che nessuno dei due ha alcuna formazione professionale in questo tipo di cure. Il primo lavorava come informatico per MGM e Warner Bros, mentre il California Board of Behavioral Sciences revocò la licenza medica della moglie. La donna ottenne la libertà vigilata da Kamala Harris, l’allora procuratore generale dello stato. Era accusata di negligenza, incompetenza, incapacità di mantenere la riservatezza e redarre registri adeguati, così come di essere la causa intenzionale o incauta di danno emotivo a un cliente.

Anche le testimonianze ascoltate dalla testata hanno raccontato della sostanziale impreparazione dei dipendenti, i quali non possiedono nemmeno un corso base per affrontare le situazioni di emergenza. I pazienti dovevano restituire regolari test delle urine, ma non erano controllati per evitare inganni. Talvolta partecipavano a tecniche di psicoterapia assistita con allucinogeni dove il terapista li invitava ad assumere MDMA o funghi sotto la sua guida. 

Ma come è stato possibile che tutto questo passasse sotto silenzio fino ad ora? L’articolo avanza una duplice ipotesi: la terapia – che non dà barriere ai pazienti – è un’ efficace strategia per distinguersi nella nicchia di clienti benestanti come un servizio esclusivo. Entrano cercando un modo di liberarsi dalla spirale in cui sono caduti, ma trovano un sistema ancora più accomodante per restarci. All’interno però si condividono segreti, drammi, informazioni sensibili che danno potere (anche ricattatorio) a chi li possiede. Ma soprattutto la loro attività deriva da una sconcertante inefficienza dei sistemi di controllo che dovrebbero garantire e vigilare sulla sicurezza delle cure in queste strutture. Quello di Hollywood è spesso un mondo a parte, ma non per questo è al riparo dagli orrori.

Fonte: The Hollywood Reporter

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