Il 2002 fu un grande anno per il fantasy, forse il migliore (almeno al cinema) di questo millennio. Uscì Le due torri, che incassò l’equivalente del PIL dell’intero nord Italia; uscì il primo Harry Potter, con tutto quello che ne conseguì. Uscì anche un altro film, dimenticatissimo perché a fronte di un budget di 60 milioni di dollari ne incassò poco più di 80; e questo nonostante un cast che oggi costerebbe di cachet quanto l’intero film, visto che comprendeva Christian Bale (ma prima di L’uomo senza sonno), Gerard Butler (ma prima di 300) e Matthew McConaughey (ma ben prima della sua rinascita post-Killer Joe). Stiamo parlando di Il regno del fuoco, che proprio in questi giorni compie vent’anni.

Il regno del fuoco è, in un certo senso, un film di zombi. Certo, al posto dei morti viventi ci sono i draghi; ma il concetto di base è quello romeriano, quello che sarebbe stato poi sfruttato dal 90% dei film postapocalittici dagli anni Sessanta in avanti – con o senza zombi. E cioè: l’umanità viene colpita da una catastrofe che la spazza via quasi completamente, e i pochi sopravvissuti sono costretti a riorganizzarsi in una parvenza di società in un mondo nel quale uscire di casa è diventata la cosa più pericolosa del mondo. Sostituite gli zombi con le radiazioni atomiche, con gli alieni ciechi o appunto con i draghi: la struttura è sempre quella, survivalismo applicato alla post-apocalisse, con scarso interesse per la causa della catastrofe e tutta l’attenzione concentrata invece su come noi umani reagiamo alla stessa.

Bistian Chrale

Nel caso del film di Rob Bowman (che si era fatto le ossa con Star Trek: The Next Generation e che tre anni dopo vedrà la sua carriera cinematografica sfracellarsi contro quello scoglio chiamato Elektra), la catastrofe sono appunto i draghi, che ritornano sulla Terra a causa dei lavori per la nuova linea della metropolitana di Londra – e se a questo punto non state già esultando non sappiamo veramente cosa fare con voi. A nostra memoria è una delle motivazioni più assurde e incredibili di sempre per giustificare un’apocalisse: “stavamo scavando un tunnel e abbiamo trovato dei draghi”. Immaginatevi i verbali delle sedute del consiglio comunale.

L’idea è che questi draghi siano sostanzialmente delle locuste troppo cresciute. A differenza della loro controparte mitologica, qui i lucertoloni sono delle bestie non senzienti e alimentate solo dal desiderio di nutrirsi; una piaga più che una razza dominante che vuole prendere il posto dell’umanità guidata da un malcelato senso di superiorità. Per dirne una: i draghi di Il regno del fuoco si nutrono di cenere, e l’unica cosa che interessa loro è dare fuoco a quanti più oggetti possibile così da prepararsi dei lussuosi pranzetti. A cosa serve parlare ed essere intelligente e colto ed educato quando sei grosso e sputi fiamme?

Fuoco e fiamme

Poi parliamo anche del film, promesso, ma fateci rimanere ancora un attimo sui draghi, e in particolare sul fatto che sputano fiamme. C’è questa intervista a Rob Bowman uscita cinque anni che è illuminante: la tesi dell’articolo, confermata con grande modestia dal regista, è che senza i draghi di Il regno del fuoco non avremmo avuto, tra gli altri, lo Smaug di Peter Jackson, i draghi di Game of Thrones e, uhm, Gods of Egypt (a dimostrazione che non tutti i mali vengono per nuocere). È una questione tecnica, che se volete potete approfondire nel pezzo ma che ha a che fare genericamente con il modo in cui sono state create le texture per dei modelli così grossi, ma è anche una questione teorica, di canone, fondamentale quindi per ogni fantasy che si rispetti.

Ed è questa questione, paragonabile per nerdismo a chi si domanda come mai in Star Wars si sentano le esplosioni nello spazio: come fanno i draghi a sputare fuoco dalla bocca e non bruciarsi le fauci ogni volta? Il regno del fuoco risponde prendendo spunto dalla Scienza, e in particolare dagli scarabei bombardieri, che hanno due ghiandole separate deputate alla produzione di due sostanze che, se prese separatamente, sono innocue; solo quando si mescolano prima dell’espulsione generano una reazione chimica che produce una sostanza bollente, usata per tenere lontani i predatori. In questo modo, questi insetti evitano di danneggiarsi con le loro stesse armi.

Bale

I draghi di Il regno del fuoco fanno lo stesso: la spiegazione che viene data nel film è la stessa che verrà poi usata, appunto, in Harry Potter e Game of Thrones, ed è più in generale diventato uno standard della narrativa draghesca. Perché allora il film di Rob Bowman è stato così dimenticato? È possibile che la spiegazione sia in parte legata al fatto che Il regno del fuoco è un film figlio del suo tempo. Non perché nel 2002 il mondo fosse pieno di draghi, ma perché nel 2002 il mondo del cinema era pieno di cupezza, oscurità e toni di grigio, e Il regno del fuoco non si stacca di un millimetro da questo standard; e quest’estetica profondamente deprimente stava cominciando a invecchiare nel 2002, e oggi nel 2022 è diventata obsoleta, almeno in prodotti affini a questo.

Il regno del fuoco è deprimente, e opprimente. Il film segue una comunità di sopravvissuti guidati da Christian Bale, che rappresenta una delle due possibili reazioni di un animale di fronte al pericolo: in inglese si chiamano fight or flight, combatti o fuggi, e Quinn è uno di quelli che opta per la seconda. La sua comunità ha deciso di trovare rifugio dai draghi scavando il più a fondo possibile, nascondendosi sottoterra per lasciare la superficie ai suoi nuovi padroni. All’altro estremo dello spettro c’è l’elemento di disturbo: Van Zan (Matthew McConaughey), a capo di un esercito di ammazzadraghi che è diretto verso Londra, dove potrebbe trovarsi la risposta a tutti i problemi dell’umanità. Van Zan è #teamfight, e lo scontro ideologico tra lui e Quinn è il cuore di Il regno di fuoco: il primo è arrivato per arruolare, per rubare all’agricoltura abbastanza braccia da poter portare un attacco plausibile alla roccaforte dei draghi; il secondo vuole solo che il primo se ne vada, e lasci lui e i suoi ai loro scavi.

Il regno del fuoco McCona

I draghi, in tutto questo, rimangono a lungo sullo sfondo, una minaccia prima di tutto ideale; Il regno del fuoco è più interessato ai suoi protagonisti umani, tanto che riguardandolo non si può evitare di pensare che se uscisse oggi lo farebbe sotto forma di serie TV – The Walking Dead con i draghi, per capirci. La fortuna del film è che questi umani sono interessanti, sono personaggi che hanno cose da dire e non solo funzioni di trama. E sono anche interpretati da gente che si diverte da matti a fare quello che fa. Bale nei panni dell’eroe è preciso e puntuale come suo solito, ma non spicca granché; a fargli da contraltare c’è però un Gerard Butler ancora libero di usare il suo accento, e i due compongono una coppia affiatatissima.

La vera arma segreta del film è però Matthew McConaughey, che in ultima analisi interpreta un trailer di sé stesso dieci anni dopo. Il regno del fuoco è del 2002, e da lì a Killer Joe passeranno nove anni durante i quali il nostro si guadagnerà da vivere facendo il manzo da romcom. Nel film di Bowman, però, McConaughey è ancora libero da quelle catene, e se ne approfitta inventandosi un personaggio talmente sopra le righe che se si fermasse a guardare in basso non le vedrebbe neanche, coperte come sono dalle nuvole. Tutta la personalità che serve al film è concentrata nella sua pelata, nella sua barba e nei suoi occhi spiritati.

McCona

A fronte di quanto detto finora, il flop di Il regno del fuoco rimane ancora oggi un mistero, e il suo ventesimo compleanno un’occasione per rivalutarlo. E per realizzare che senza di lui e il suo approccio spielberghiano alla CGI dei mostri, oggi i draghi del mainstream sarebbero molto diversi, e probabilmente non altrettanto belli.

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