C’è stato un giorno in cui parlare bene di Avatar è diventato estremamente più difficile che parlarne male. Lo capisco. Il film che secondo James Cameron e il suo hype train avrebbe cambiato il destino del cinema (ma ricordo anche del mondo intero) si è rivelato un fallimento. Già, il fallimento di maggior successo di sempre, come scriveva Gabriele Niola nel suo speciale (recuperatelo qui). Perché il box office non è tutto, e se l’arrivo della narrazione intrecciata della Marvel sta ancora smuovendo le acque della sua rivoluzione, lo stesso non si può dire del 3D e dell’idea di costruire una nuova fantascienza partendo dalle strutture più classiche. Se il mondo di Pandora era un cantiere, i lavori si sono interrotti troppo a lungo e ben prima che diventasse bello vivere al suo interno.

Avatar non è un film brutto, per i più è un film deludente. Il che è ben diverso. Significa che le aspettative non sono state rispettate, o che si è intravisto un qualcosa “in potenza” che non si è mai realizzato nel film. Si pensava in una rivoluzione nel modo in cui raccontiamo le storie, invece Avatar è il film che più di chiunque altro ha contribuito a seguire la strada del più classico blockbuster. L’ha pure portato 10 anni avanti come qualità degli effetti visivi e sviluppo tecnologico, ma questo non basta.

Anche senza citare Balla coi lupi e Pocahontas si può dare ragione chi guarda nella cima della classifica con i maggiori incassi di sempre e pensa che lì Avatar non ci debba stare. E nemmeno in quella adeguata all’inflazione!

Proviamo a ragionare così: Avatar esce al cinema nel 2009. Va bene, recupera il budget, ma non batte nessun record. Come ce lo ricorderemmo oggi? Togliamo di torno il podio più insignificante di tutti dal punto di vista dell’analisi artistica (quello degli incassi). Concentriamoci sul film. Quello che resta è ancora un film solidissimo che riesce a coniugare alla perfezione il senso di quello che racconta con la forma adottata nella messa in scena e persino nell’esperienza dello spettatore. Questo è l’Avatar che si può ricordare, ed è pazzesco.

Avatar

Avatar inizia subito dopo Titanic

A James Cameron interessa iniziare da dove aveva finito. Proprio dalla sequenza finale di Titanic. Rose abbandona il Cuore dell’oceano al suo destino nel mare. Nell’inquadratura successiva è a letto, forse in punto di morte. Inizia a sognare, ma è un ricordo dell’anima che si allontana dal corpo poco prima della fine. È una soggettiva che viaggia nel relitto del Titanic. Arriva dove si trovano tutti gli altri viaggiatori morti nel naufragio, le si aprono le porte e Rose viene guardata da tutti i presenti, tranne da Jack. Il ragazzo si gira, le porge la mano e in quel momento usciamo dalla sua prospettiva. Di fronte ci sono due corpi giovani nel pieno della vita. L’inquadratura sale verso la cupola di vetro del Grand Staircase che si inonda di luce come un occhio gigantesco e onnisciente.

Avatar: le nebbie di Pandora riempiono una sequenza in volo. Come Rose, Jake sta sognando in una soggettiva incorporea. Lei muore, anche lui è in fin di vita ma è pronto a rinascere. L’anima di lei abbandona il corpo, quella di lui è pronta ad entrare in una nuova identità. Così Avatar inizia speculare, con gli occhi che si aprono terminando il sogno e catturando la realtà. 

La voglia di guardare oltre

Io ti vedo”, il concetto simbolo di Avatar, è la chiave di tutto il progetto. Cameron è ossessionato dalla nuova visione, che è un qualcosa in più del semplice guardare. Riuscire a conoscere con la vista è per il film anche una possibilità di empatia, uno scambio che avviene a livello oculare e c he crea comprensione e alleanze. Che ci fa diventare un po’ come l’altro. Vedere è creare.

Chiaramente il contesto scelto è quello della fiaba. “Non siete più in Kansas”, si dice all’arrivo su Pandora. Potremmo indicare tranquillamente tutti i passaggi delle narrazioni più classiche e sarebbero lì. Perché come fantasy (ancora più che fantascienza), Avatar vuole dimostrare che i sogni possono essere fatti ad occhi aperti. Prende quel linguaggio e quell’immaginario per rilanciarlo.

Il personaggio di Jake Sully reagisce per tutto il suo arco narrativo alla visione disincarnata. Il suo corpo resta fermo, la sua visione lo trasporta in una soggettività nuova. Oggi noi possiamo farne esperienza con la realtà virtuale. Nel 2009 James Cameron voleva farcela provare con il 3D e l’immersività del cinema. Quello che succede a Jake, cioè di stare immobile eppure di partecipare fisicamente all’azione, è l’esperienza dello spettatore ingigantita e moltiplicata all’infinito.

Grazie ai neuroni specchio quando guardiamo un soggetto che riconosciamo come simile, sperimentiamo in una piccola dose quello che prova lui nell’immagine. Chi non ha sentito un formicolio alla mano durante una scena di amputazione o ha lacrimato solo per aver visto occhi lucidi?

Per James Cameron questa è la più pura esperienza del cinema spettacolare, quello da sala, enorme, avvolgente, ambizioso. Vuole costruire sogni immensi e, dove molti altri registi desiderano catturare e riportare una realtà, lui utilizza la tecnologia per illuderci di averne creata una completamente nuova. 

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I dettagli sono la parte più interessante dei sogni

Da questa prospettiva Avatar si esalta come sperimentazione audiovisiva nella sua parte centrale. Quella in cui il Na’vi va controllato, proprio come gli esoscheletri degli umani. Il corpo è una macchina, quello che conta è chi la guida. Se il film fosse un organismo potremmo dire che i sognatori sono i registi, gli Avatar sono l’insieme di sceneggiatura, immagini e inquadrature: l’illusione. Tutto vive, tutto va a costituire il corpo unico del film, proprio come le piante, l’aria e gli abitanti di Pandora.

I dettagli non sono da guardare come orpelli di un racconto lineare, sono il racconto stesso! E lo vediamo anche dalle scelte di regia: a Cameron interessa molto meno il destino di Quaritch di quanto lo sia quello di una luminescente spora che si posa su una mano. L’invito per lo spettatore in sala è di osservare, di prendersi il tempo per stare su Pandora. Non si può farlo senza una storia ridotta all’osso, semplice da seguire e dall’andamento disteso. 

Ci si ritrova così con una pianta più caratterizzata di un (altro?) essere vivente che parla e agisce nel film. È straniante, ma normale per chi come Cameron è convinto che la tridimensionalità della storia venga anche dalla cultura che si riesce a ridisegnare e non solo dalle emozioni o dagli effetti. Il cuore di Avatar è l’esplorazione di Jake del suo sogno, la sua scoperta visiva di uno sguardo che rende possibili le cose quando le vede. 

La tecnologia in funzione della storia: gli attori dentro gli Avatar

Si spiega così la voglia titanica di James Cameron: per raccontare Pandora ha dovuto cambiare il modo in cui noi spettatori vediamo e come gli attori manovrano i loro corpi. La performance capture è la sintesi concreta e tangibile dello scambio di corpi al centro del film. La tridimensionalità è la nuova visione, l’ingresso in un altro mondo.

Parliamo quindi di un autore che decide di cambiare il modo in cui si è sempre inteso il cinema (pur ritirando fuori dal cassetto un’invenzione già esistente e accantonata) per assicurarsi che la struttura tecnica del suo film sia coerente con la storia. Perché Avatar parla di cinema molto più di quanto non parli di ecologia.

Siamo ancora pronti ad ammirare con tenerezza le inquadrature sempre uguali dei personaggi che guardano un film in sala con la luce del proiettore che gli illumina da dietro. Da Nuovo cinema paradiso a Belfast, questa è la concezione nostalgica di quella che è la passione per le immagini in movimento. Sono sempre le stesse immagini, sempre la stessa idea, sempre lo stesso sguardo.

belfast

Cameron prende questo immaginario e lo straccia. La sua mente non è nel cinema del passato. Lui ragiona nel futuro, cerca il cinema di dopo domani. Per il regista il cinema si racconta solo dall’interno. Solo nella soggettività dello spettatore che sogna e guardando ovunque assorbe un nuovo mondo e lo fa suo. Questa è, ancora oggi, ciò di fronte a cui ogni amarezza lasciata da Avatar può capitolare. Perché pochi negli anni a venire hanno avuto questo coraggio rivoluzionario rispetto al mezzo, alla struttura. C’è stato Peter Jackson con l’HFR. Christopher Nolan e Tarantino lo stanno facendo molto bene con la pellicola, la Marvel e il Top Gun di Joseph Kosinski con i formati premium. Poi il vuoto.

La maggior parte del cinema di oggi si occupa di storie, molto meno della forma. La ricerca è su narrazioni che sappiano ancora appassionare, non su nuovi strumenti in mano ai registi per raccontare una storia. E questo è uno dei motivi per cui la sala sta tramontando come luogo di emozioni privilegiate e di esperienze uniche. 

Si può insomma accusare Avatar di essersi presentato come innovatore nel suo tentativo di cambiare tutto e salvare tutto vestendosi però della tradizione e fallendo miseramente nel suo proposito. Si può stimarlo per averci provato.

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