Il Bad Movie della settimana è La zona d’interesse, al cinema dal 22 febbraio.

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Premessa

Ray Winstone diventa una star come gangster inglese abbrustolito e ingentilito dal sole spagnolo che col cavolo che vuole tornare una bestia come l’ex collega Ben Kingsley (Sexy Beast; occhio alla serie ora in streaming); supposti mariti tornati dall’aldilà sotto forma di bambini inquietanti che vogliono fare l’amore con Nicole Kidman e lei quasi quasi ci fa un pensierino (Birth – Io sono Sean); Scarlett Johansson aliena per la seconda volta in carriera con chioma nera dopo Diario di una tata (2007) venuta sulla Terra per studiarci consapevole che attraverso il rimorchio è facile accalappiarci (a noi uomini) per poi sminuzzarci (Under the Skin).

La filmografia del regista inglese Jonathan Glazer è striminzita ma risonante. Tre film in 13 anni, dal 2000 di Sexy Beast al 2013 di Under the Skin. Ci sono sempre dei grandi testi di riferimento sotto i suoi film. Non puoi non pensare a The Hit (1984) di Stephen Frears per Sexy Beast o A Venezia… un dicembre rosso shocking (1973) di Nicolas Roeg per Birth o L’uomo che cadde sulla Terra (1976) sempre di Roeg per Under the Skin. Glazer lavora così fin da quando si fa notare filmando pubblicità e videoclip citazionisti. Due dei suoi corti musicali più noti (Karmacoma dei Massive Attack + The Universal dei Blur) avevano dietro di loro lampanti Barton Fink (1991), Rischiose abitudini (1990), Pulp Fiction (1994) e Shining (Karmacoma) o Arancia meccanica di Stanley Kubrick (The Universal). È un modo di lavorare molto preciso, in un certo senso umile nella sua smaccata riverenza verso il testo 1 di riferimento che lui vuole quasi proseguire, più che omaggiare, con il suo testo 2. E ora? Per La zona d’interesse, suo quarto lungometraggio in 24 anni, l’ex videoclipparo e pubblicitario ora cineasta saltuario ha preso uno dei nostri eroi del ‘900: Pier Paolo Pasolini, a suo dire tra i registi che ama di più. Il film è Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) che lui scarnifica togliendo oscenità, torture porn, lordume e shock visivi per comunque mantenere lo scheletro essenziale: c’è una collettività che vive ed amministra quotidianamente il male e poi si domanda, se si incontra durante la giornata di torture e sevizie, come sta la famiglia a casa. Pasolini aveva mescolato la Repubblica di Salò (tentativo di tenere in vita il fascismo in Italia dal 23 settembre 1943 al 25 aprile 1945) con un romanzo incompiuto del Marchese De Sade datato 1785. Glazer, di origini ebraiche, prende un libro polifonico di Martin Amis del 2014 che tira in ballo indirettamente l’Olocausto per fare il suo Salò dove lo shock visivo viene sostituito da quello sonoro. Si mantiene del romanzo di Amis il titolo affascinante e sfuggente.

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The Zone of Interest

Amis trasfigura e cambia nomi a cose e personaggi. Glazer invece vuole proprio raccontare la vita domestica dei coniugi Rudolf e Hedwig Höss (nel romanzo si chiamano invece Paul e Hannah Doll). È un ritratto di vita borghese idilliaca come quando si portano i bambini al lago per una giornata di sole e a ritorno li culli in braccio perché sono esausti e ogni passo è silenzioso per non farli svegliare (il magnifico inizio senza parole). Ci sono le rose in giardino, i cani sono giocherelloni e la piscina per i bimbi è pronta ad ospitare dei party. Dentro casa si lasciano gli stivali sulla porta per non sporcare il pavimento. Questa famiglia serena vive in una bella villa dove Hedwig è la padrona di casa impeccabile e Rudolph il duro lavoratore che torna stanco la sera. Lui ha anche un amante. Insomma, sono proprio una coppia normale del ‘900 con maschio dominante e casalinga placidamente subordinata. Alla sera, a letto, scherzano pure facendo i versi del maiale. I due coniugi però hanno un vicino di casa inusuale: il campo di concentramento di Auschwitz. È quello il lavoro del laconico Rudolf: gestirlo. Höss, direttore del lager nazista più famoso della II Guerra Mondiale, ambisce promozioni, studia perfezionamenti per i forni crematori, indaga circospetto circa la carriera dei colleghi, controlla il processo burocratico del Terzo Reich tra noiosa abitudine e germanico senso del dovere. L’unica volta che lo vediamo perdere un po’ il controllo è quando affiorano delle ossa di ebrei gasati nei formi crematori sulla superficie di un fiume dove i figli stanno sguazzando. Lì Rudolph lo vediamo agitarsi e freneticamente collezionare quelle ossa per nasconderle allo sguardo dei pargoli. Non vorremo mica rovinar loro la gita? C’è uno scatto di lavoro forse per lui a Berlino ma Hedwig non vuole lasciare la casa così amorevolmente amministrata e costruita. Andrà lui da solo in trasferta. E allora sarà lei, forse, a contemplare una relazione extraconiugale. Insomma ancora i soliti episodi o rompicapi di una coppia borghese qualsiasi. Accanto, oltre quel muro, c’è un altro film che non vediamo ma sentiamo.

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Bestial Sound

Tarn Willers e Johnnie Burn se la giocheranno con Willie Burton, Richard King, Gary A. Rizzo e Kevin O’Connell per Best Sound agli Oscar. The Zone of Interest vs Oppenheimer? Probabile. Chi vincerà tra le due squadre Miglior sonoro il 10 marzo? I primi due nomi sono i geniali ingegneri (Burn è il capo) del film di Glazer. Hanno prima studiato e poi riprodotto quella imprevedibile cacofonia che ogni tanto esplode a due passi dalla piscina degli Hoss. Cosa sentiamo oltre quel muretto? Macchinari di non precisata identità che sferragliano, forni che inceneriscono, vampate di fuoco da fornaci, stivali sulla ghiaia, singoli spari di pistola o mitragliatrici, urla improvvise, dolore stridente. Sarà impossibile dimenticare quei “suoni” che si mescolano perfettamente con la musica dissonante della storica compositrice di Glazer Mica Levi, la quale esplode a livello internazionale con la rivoluzionaria colonna sonora di Under the Skin più di 10 anni fa. Poi nel film, sempre sul fronte dei testi di riferimento, è importante anche la presenza di un omonimo.

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Oppenheimer

L’altro. Non un fisico teorico su cui hanno fatto un film che probabilmente vincerà Miglior Film e Regia il 10 marzo. No. Quest’altro Oppenheimer all’anagrafe di nome proprio fa Joshua, nato il 23 settembre 1974 ad Austin in Texas. Documentarista candidato all’Oscar per The Act of Killing (2012) e poi di nuovo nominato con The Look of Silence (2014), sequel di quel capolavoro che raccontava del massacro indonesiano compiuto dal regime militare del Generale Suharto che avrebbe portato all’assassinio di un milione di cosiddetti “comunisti” nel biennio 1965-1966. In The Act of Killing Oppenheimer intervista a ruota libera Anwar Congo, cinefilo così appassionato di gangster americani visti nei film da diventarne un clone al servizio dei militari pronti a fargli uccidere centinaia di dissidenti. L’interesse di Oppenheimer era uno e uno solo in entrambi i doc: come sopporta la mente e il corpo di un essere umano l’atto dell’uccidere? È possibile vivere serenamente dopo aver trucidato così tanto? Anwar Congo prima racontava impassibile le sue tecniche omicide ma poi, improvvisamente e verso la fine del documentario, era colto da lancianti conati di vomito che Oppenheimer inquadrava e inglobava impassibile dentro il suo doc. Ci sembra che Glazer lo abbia chiaramente omaggiato con il finale berlinese di La zona d’interesse.

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Conclusioni

Christian Friedel è Rudolf mentre Sandra Hüller (immensa in Anatomia di una caduta e candidata per quel film all’Oscar come Miglior Attrice Protagonista) è Hedwig Höss. La zona d’interesse attorialmente lo tengono in mano sostanzialmente loro due con Friedel come protagonista (i conati di vomito stile The Act of Killing li avrà lui) e Huller magistrale spalla. Lui è un ometto accigliato e sempre vagamente infastidito. Lei una donnetta triviale esaltata dalla sua impeccabile villa. Il film passa in anteprima mondiale il 19 maggio 2023 a Cannes dove vince il Gran Premio della Giuria. Ora la pellicola è candidata a 5 Oscar: Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura Non Originale, Miglior Film Internazionale (favorito) e Miglior Suono. Una sorta di trionfo visto che il film ha “scavallato” ed è uscito dal ghetto di Film Internazionale come si dice in gergo dimostrando l’inclusione dell’Academy verso i film stranieri come già ai tempi di Roma (2018) di Cuarón e Parasite (2019) di Bong Joon-ho.

Vogliamo concludere con una nota leggermente amara che ci riguarda. Un tempo questi film li facevamo noi italiani, anzi eravamo i maestri della provocazione e del disturbo insieme ai francesi come l’amore evidente per Salò di Pasolini da parte di Glazer dimostra. A tema Olocausto, per citare solo pochi titoli, facevamo Kapò di Pontecorvo (1960; Jacques Rivette fu disgustato sui Cahiers du cinéma da una singola inquadratura) o La caduta degli dei (1969) di Visconti o Il portiere di notte (1974) di Cavani. Pellicole incandescenti che facevano litigare e quindi provocavano infiniti dibattiti tra repulsione e attrazione e scatenavano la canzonatura cinefila di Michele Apicella in Ecce Bombo (1978) che come al solito si lamentava dicendo: “Sono stanco di questi film in cui ci stanno i tedeschi…” e poi giù di satira icastica ed onomatopeica in stile morettiano prima maniera con lui che imita i canti lascivi e la decadenza sessuale di “questi film”.

Ora ci sono rimasti solo due cineasti che lavorano in quella direzione: Luca Guadagnino e Marco Bellocchio. Con Guadagnino che è detestato dal sistema italiano e sostanzialmente è considerato un cineasta straniero. Mentre Bellocchio a 84 anni è già un miracolo che sia riuscito a fare 3 ottimi film negli ultimi 5 anni. Ma domani? Non sarebbe il caso di svezzare qualche nuovo “disturbatore”? Per tornare ad occupare quella zona di interesse filmico che vale molto in termini di premi ai festival e posizionamento geopolitico di una cinematografia.

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