Il successo di Free Guy sta riportando a galla i soliti discorsi che si fanno ogni volta che un film sfiora in qualche modo l’argomento “videogiochi”: quali sono i migliori? Quali i peggiori? È vero che i film tratti da videogiochi, o che ne parlano in qualche modo, fanno tutti schifo per una qualche misteriosa legge fisica impossibile da sconfiggere? E ovviamente, visto che stiamo parlando di un film che fa del citazionismo e del meta- una delle sue armi principali, fioccano anche i paragoni con altri film più o meno classici del passato più o meno recente: nonostante la tematica ludica il nome più adatto da fare è probabilmente quello di The Truman Show, ma c’è anche un altro film, uscito nel 1994, che parlava di universi di finzione, libero arbitrio e di come la cultura pop sia diventata parte del nostro vocabolario e una delle lenti attraverso le quali guardiamo alla realtà. Stiamo parlando di Last Action Hero, uno dei flop più amati della storia del cinema, una produzione che ha rispettato fino all’ultimo la legge di Murphy secondo la quale se qualcosa può andar male lo farà.

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Da queste parti abbiamo già parlato un paio di volte di Last Action Hero. Qui, dove vi spiegavamo che quello che è considerato un flop in realtà non lo è stato, non del tutto almeno (incassò comunque quasi 140 milioni di dollari). E qui, dove vi spiegavamo come il film con Arnold Schwarzenegger abbia contribuito in maniera decisiva a celebrare il funerale dell’action anni Ottanta, eliminando definitivamente la violenza dal quadro – dopo che quattro anni prima Verhoeven e proprio Schwarzy con Atto di forza avevano messo in scena talmente tanto sangue e crudeltà estrema da suscitare le classiche e irrinunciabili polemiche” – e sanificando a uso familiare un genere che negli ultimi dieci anni si era retto invece sulla sua intransigenza.

 

Regazzino

 

Il problema di Last Action Hero è che tutto questo nasce da un grosso equivoco, o meglio da una serie di grossi equivoci. L’idea originale era venuta… be’, volendo a Lou Illar e Galen Thompson, che nel 1992 avevano scritto Pugno d’acciaio, un film con Chuck Norris e un ragazzino fan di Chuck Norris che viene trasportato nel mondo di Chuck Norris e da lui impara a menare e quindi a sconfiggere i bulli che lo aspettano nel mondo reale. Ma a parte queste somiglianze, o coincidenze, l’idea originale di Last Action Hero è di Adam Leff e Zak Penn: il primo ha sostanzialmente smesso di lavorare dopo quest’esperienza, il secondo si è ripreso e si è costruito una carriera di più che discreto successo.

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Fatto sta che nei primi anni Novanta i due erano ancora esordienti, e cominciarono la loro carriera scrivendo una sceneggiatura che potete leggere per intero qui: è quella originale di Last Action Hero, che al tempo si chiamava ancora Extreme Violence (è un dettaglio importante). Se provate a leggerla vi renderete conto che era un’operazione non dissimile da quella fatta da Scream, ma anche da parodie più esplicite tipo Hot Shots! o Una pallottola spuntata: prendere un genere caratterizzato da regole e cliché facilmente identificabili, e costruire una storia fatta per prenderle in giro, smontarle e magari rifletterci anche. Se volete un paragone più recente pensate a Quella casa nel bosco: Last Action Hero all’inizio doveva essere quello.

 

Last Action Hero Sly

 

Un particolare divertente è che Penn e Leff avevano scritto la sceneggiatura con in mente una serie di film scritti da Shane Black. Il problema (loro), come ben raccontato in un capitolo dedicato alla lavorazione del film nel libro Hit & Run di Nancy Griffin e Kim Masters, è che tra la loro visione e il risultato finale c’era di mezzo il mare, rappresentato in questo caso dalle necessità produttive e dalle fisse di marketing di Columbia (e quindi di Sony). Il libro parla delle vicende di casa Sony raccontando la vita e la carriera dei produttori Jon Peters (“un ex parrucchiere e delinquente che non aveva neanche finito le medie”) e Peter Guber (“il suo amico senz’anima”), che pur non essendo direttamente coinvolti con la produzione di Last Action Hero riuscirono a influenzarla con la loro visione; purtroppo non è mai stato tradotto in italiano, ma ci siamo qui noi per raccontarvi i passaggi salienti del capitolo intitolato “How they Built the Bomb”, come costruirono la bomba (dove “bomb” si traduce anche con “insuccesso al box office”).

Al tempo a capo di Columbia c’era Mark Canton, già dietro quel clamoroso buco nell’acqua che fu Il falò delle vanità. Di fronte allo script di Penn e Leff, Canton reagì dicendo qualcosa come (immaginiamo noi) “questa roba è invendibile!”; lui voleva qualcosa di più commerciale, meno autoironico e autoaccusatorio (andate a leggere il finale della sceneggiatura di Penn e Leff e capirete cosa intendiamo), e soprattutto costruito su misura sulla star da 15 milioni di dollari di ingaggio che era stata immediatamente coinvolta. Parliamo ovviamente di Arnold Schwarzenegger, messo sotto contratto con cifre da Lionel Messi e che arrivava da successo megagalattico di Terminator 2, e dalla sua ascesa definitiva a star incontrastata del cinema mondiale.

 

Schwarzynegger

 

Canton fece quindi la cosa più logica che gli potesse venire in mente in quella situazione: chiese consiglio proprio a Schwarzy, il quale (come racconta questo specialone sul film uscito nel 2021 su Empire) come prima cosa chiamò Shane Black, cioè il bersaglio principale dell’operazione parodistica del film, e gli chiese di risistemarlo. Black in realtà è solo uno dei tanti nomi (una ventina, tra accreditati e non) che furono coinvolti nell’opera di riscrittura: a un certo punto fu licenziato e lì cominciò la parata di nomi, tra cui segnaliamo William Goldman (quello di La storia fantastica e Tutti gli uomini del Presidente, non un omonimo) e Carrie Fisher (quella di Star Wars e Blues Brothers, non un’omonima). Il punto però, al di là dell’elencone, è proprio l’opera di riscrittura in quanto tale.

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Abbiamo detto prima che Schwarzy era una star incontrastata del cinema mondiale. “Del cinema”, non “del cinema action”: Arnold era il primo (e il suo ingaggio lo dimostra) che vedeva in Last Action Hero un altro trampolino di lancio, non una raffinata operazione intellettuale e di decostruzione di un linguaggio specifico, ma un potenziale blockbuster estivo di quelli che infrangono cinque record di incassi ogni dodici minuti. E il fatto che sia stato lui a suggerire anche John McTiernan alla regia lo dimostra: stiamo parlando del regista di Predator e Die Hard, uno bravino insomma, e soprattutto serissimo e immerso al 100% nello spirito degli action del decennio che si era appena concluso, e un po’ meno adatto all’umorismo, alla comicità e alle meta-cose.

 

Charles Dance

 

E infatti Black, Goldman, Fisher e compagnia stravolgono il senso iniziale di Extreme Violence (che già non si intitolava più così, per ovvi motivi) e trasformano Last Action Hero in un ibrido indeciso. Da un lato l’aspetto meta- rimane: il protagonista è un ragazzino undicenne che grazie a un biglietto magico in stile Willy Wonka viene trasportato nel mondo di fantasia del suo eroe action preferito, Jack Slater, e qui riesce a conquistare la sua stima grazie alla sua profonda conoscenza dei cliché dell’action nei quali Slater, che è un personaggio di finzione, vive ovviamente immerso.

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Dall’altro, Last Action Hero è un blockbuster anni Ottanta pieno di esplosioni, inseguimenti e spettacolari scene d’azione; in sostanza riesce a prendere in giro una cosa e nel contempo a esserla, un equilibrio non semplicissimo da mantenere. E infatti il film è un pasticcio sovrabbondante che oscilla costantemente tra l’essere un action fracassone con Schwarzenegger e una simpatica parodia per famiglie, educata e non troppo volgare (c’è pochissima violenza in Last Action Hero, molta meno di quella presente nei film che prende in giro). È un trionfo di cameo e strizzate d’occhio (la nostra preferita è il fatto che il film sembra suggerire l’esistenza di un universo condiviso con Basic Instinct, visto che compare Sharon Stone nei panni di Catherine Tramell), ma anche un film con scene di questo tipo:

 

 

Funziona, ed è facile amarlo, perché è scritto da uno dei migliori dialoghisti di sempre, interpretato da una star gigantesca e diretto da un maestro dell’action; ma se lo si guarda con occhio critico non può fare almeno un po’ arrabbiare, e sognare l’esistenza del movimento #releasethemctiernancut.

Queste però sono considerazioni che si fanno ex post, quando il film è uscito e la critica comincia a smontarlo – e non è detto che siano sufficienti ad ammazzare un film al box office, al massimo a rovinarne il ricordo e l’eredità. Furono altre scelte assurde a stroncare definitivamente ogni speranza per Last Action Hero, a partire dall’idea di montarlo e postprodurlo in tre settimane (e infatti McTiernan sostiene che la versione arrivata al cinema “non è neanche un film”) proseguendo con la brillantissima intuizione di farlo uscire appena una settimana dopo un altro blockbuster di discreto successo come Jurassic Park. Ci furono anche sfighe impronosticabili: Canton spese un sacco di soldi per affittare la fiancata di un razzo della NASA come spazio pubblicitario, razzo che poi non decollò mai per problemi tecnici lasciando Sony con un palmo di naso e un investimento buttato.

Insomma, andò tutto male, fin dall’inizio, fin da quando si decise a tavolino che Last Action Hero sarebbe dovuta essere un’opera democristiana, che strizza l’occhio al genere mentre lo smonta e che prova a essere un blockbuster mentre sfotte i blockbuster. Gli anni sono stati clementi, però: oggi il film di John McTiernan è un culto per moltissima gente, e Canton continua a sostenere che sia “il miglior film action di sempre”. Non ce la sentiamo di dargli ragione, ma di sicuro concordiamo sul fatto che non sia il peggiore, e che da qualche parte in mezzo al casino ci sia nascosto un piccolo capolavoro.

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