Un paio di anni fa la Mostra del Cinema di Venezia ha ospitato uno dei tanti film “scandalo” che passano nei concorsi per poi sparire dalla circolazione. L’uccello dipinto, tratto dal libro di Jerzy Kosinski. Per quasi tre ore assistiamo al vagare di un bambino ebreo in tempo di guerra. Senza alcuna censura vediamo terribili sevizie. Viene sepolto vivo con la testa fuori dalla terra colpita da un corvo. Assiste a violente uccisioni, violentato da una ninfomane, picchiato ripetutamente, lasciato solo al freddo dell’est. Il trauma del bambino, ripetuto e insistito, è il trauma dell’Europa stessa. Il personaggio resiste, si rialza sempre e continua a camminare mentre la gente lo teme come una sorta di maligno portatore di sciagura. Lui, invece, accumula ferite su ferite. Solo alla fine, forse finalmente libero, guadagna la capacità di parola.

C’è uno stretto legame tra la nascita del personaggio come un individuo dotato di raziocinio e di una coscienza che può finalmente esprimere e l’esperienza che ha subito. Una poesia del trauma. L’uccello dipinto è uno dei punti più estremi di una tendenza espressiva ritenuta ormai prevalente nelle opere contemporanee.

In un articolo ben dettagliato del NewYorker, che vi invitiamo a leggere qui nella sua interezza, Parul Sehgal mette a processo questa corrente. Identifica il tropo narrativo del trauma. Personaggi legati indissolubilmente alle loro ferite. Intenti a risolvere, per tutta la durata del libro o del film, eventi accaduti nel loro passato. 

Nell’articolo si citano come imputati serie come Ted Lasso, WandaVision, Fleabag, House of Cards. Persino in Chiamatemi Anna, tratta da Anna dai capelli rossi, viene inserito un vissuto fatto di traumi violenti. Fantasmi del passato che ritornano nel presente. Il cosiddetto “ghost”, un elemento da sempre essenziale per gestire le motivazioni e la spinta ad agire. Questo, si dice, è un elemento sempre più invadente che va quasi a sostituire l’individuo stesso che lo sperimenta.

Luke Skywalker si confronta con il suo fantasma: il padre malvagio, prefigurazione di quello che potrebbe diventare con un potere incontrollato. Harry Potter fa la stessa cosa con Voldemort. Non può trovare la propria identità senza accettare la condizione di orfano e processare nel proprio “io” la morte dei genitori. Il trauma prende anche Spider-Man, le cui origini, come abbiamo scoperto, non possono avvenire senza morti violente.

Sehgal nell’articolo analizza il cliché dal punto di vista letterario, aprendo poi la visuale alle altre forme del racconto. Non lo demonizza però in assoluto. I traumi nella narrativa sono una parte fondamentale già a partire dalla tragedia greca. Non ci sono cosmogonie, testi sacri, drammi, romanzi, ma neanche biografie di vita vera, che non ruotino attorno a eventi che lasciano un segno. Il problema, si scrive nell’editoriale, è che fino ad ora questi erano stati una parte di una statura morale complessa e multifattoriale. Oggi la letteratura ha messo al centro il trauma come segno di un difetto morale per una fonte di autorità invece totalmente morale, che diventa anche una sorta di competenza. Un’esperienza da cui trarre conoscenza, abilità e potere.

Cita poi il saggio Pop Song di Larissa Pham, dove l’autrice scrive: “la modalità dominante con cui una giovane scrittrice affamata poteva entrare nella conversazione (artistica) era decidere quale dei suoi traumi monetizzare… che si tratti di anoressia, depressione, razzismo occasionale, o forse una tristezza come la mia, che mescolava tutti e tre”.

Il flashback traumatico

Il punto è quindi che oggi il trauma è diventato un’identità totalizzante del personaggio. Al cinema, in particolare, è riconosciuto il merito di avere inventato il “flashback traumatico”. Un ritorno al passato che spiega la sofferenza del presente. Se nell’epoca del cinema classico questo era solo una parte del tutto, oggi la scrittura di molti personaggi fa esclusivo affidamento alle ferite. L’autrice contesta così un appiattimento: svelare i traumi infantili di Ted Lasso significa togliere sfumature al suo carattere rendendolo un semplice meccanismo di difesa. 

In WandaVision la nostra protagonista resiste all’omicidio dei suoi genitori, dei gemelli, e la morte per mano sua dell’amato, che è poi fatto risorgere e ucciso nuovamente. Tutto questo rappresenta una sottotrama con una bomba a orologeria. Il trauma è diventato sinonimo di antefatto. Ma la tirannia dell’antefatto è un fenomeno relativamente recente. (…) I personaggi di Jane Austen non sono colpiti da ricordi improvvisi; non esistono per colmare le lacune di ricordi parziali e ossessionanti.

Continua parlando anche del cinema:

Il cinema classico di Hollywood è stato in grado di dare vita ai personaggi senza portentosi flashback sui turbamenti formativi. Al contrario ora i personaggi sono creati per essere spediti nel passato, per andare in cerca di traumi.

Una posizione sicuramente molto forte e facilmente riscontrabile analizzando le sceneggiature più acclamate. Anche se per rafforzare la propria argomentazione Sehgal sottovaluta la presenza dello stesso tropo nelle opere del passato. Quarto potere basa interamente la complessità di Charles Foster Kane su un singolo evento traumatico dell’infanzia. È però ben lontano da qualsiasi appiattimento o pigrizia di scrittura.

Trauma traumi

Il cinema e la rielaborazione del dolore

Nel cinema relativista, in cui la psicanalisi è entrata con prepotenza, i continui turbamenti di Fight Club, Memento, Il sesto senso, non limitano i caratteri al loro vissuto shoccante. Certo li gettano in una corsa a ritroso nel tempo e nello spazio per scoprire l’evento scatenante. Però è la forma del film, la sua impalcatura narrativa, che diventa il trauma stesso, non il personaggio. Il montaggio di Memento è la perdita di memoria stessa. La realtà di Fight Club è il dualismo della mente espressa per immagini.

Oggi nel cinema è il gesto di riprendere a definire una sorta di psicoterapia. Madre! di Aronofsky non analizza un trauma nella sua sceneggiatura, ma mette in scena uno stato emotivo con le immagini. Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry non appiattisce i personaggi perché non analizza le crepe dell’anima con i dialoghi. Lo fa con le immagini, con l’atto stesso di filmare. 

È chiaro che l’audiovisivo non può evitare di recepire il ruolo che la scienza gli sta attribuendo nella rielaborazione del dolore. Registrare, e quindi rivivere, sono azioni importanti nello studio e nella cura del Disturbo da stress post-traumatico. Basta pensare all’attenzione che si sta dedicando alla realtà virtuale come strumento di terapia. Non è però vero che questa “dittatura” del trauma nella costruzione letteraria è prerogativa soffocante del tempo presente. 

Le storie tendono a ribellarsi

Come accennato nella conclusione dell’articolo del NewYorker, le storie tendono a ribellarsi. Lo fanno con scetticismo, comicità, fantasia e consapevolezza. Fa l’esempio di Reservation Dog, serie ambientata in una riserva indiana dell’Oklahoma, dove si gioca con il cliché. Una battaglia di paintball finisce come l’uccisione del sergente Elias di Platoon. L’umorismo attenua il sentimento specifico dell’esperienza dei nativi americani. Il trauma non ha più il sopravvento. 

È vero: svelarlo nella sua totalità significa appiattire le sfumature, privare lo spettatore di quella dimensione inconoscibile che sperimentiamo ogni giorno incontrando altre persone. 

Indagarlo è invece una lecita operazione del racconto, che da sempre aiuta a processare la realtà, sia essa collettiva (la grande epica) o personale. È giusto riconoscere la tendenza che sta prendendo sempre più piede, ma va ribaltata la prospettiva. Dalle masse ci si sta avvicinando sempre di più al singolo. Soprattutto al cinema. 

Abbiamo perso i modelli di vizi o di virtù assoluti (anche nei film di supereroi), e siamo approdati al particolare. Non c’è quindi alcuna “presa di potere” delle trame basate sulle ferite del passato; semmai è il riconoscimento nella realtà dell’importanza della cura della mente, e del delicato equilibrio che ci conduce nelle giornate, a chiedere di integrare questa dimensione dell’essere che ormai conosciamo e sperimentiamo, all’interno delle storie. Siamo noi che siamo cambiati, consapevoli dell’importanza del tempo vissuto su quello contingente, non solo i racconti che leggiamo.   

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