La Fine del Mondo, ovvero il capitolo finale della Trilogia del Cornetto firmata Edgar Wright, Simon Pegg e Nick Frost.

Malgrado il consenso di critica e pubblico ottenuto dalla pellicola in Inghilterra e Stati Uniti, in Italia il suo destino è stato analogo a quello di Shaun of The Dead e Hot Fuzz ed è pertanto passata quasi del tutto inosservata. Ma noi di BadTaste sappiamo bene che il terzetto brit è letteralmente idolatrato da molti lettori – così come da tutta la redazione del resto.

Grazie alla divisione italiana della Universal vi proponiamo un'intervista al protagonista e co-sceneggiatore Simon Pegg, cui farà seguito, nei prossimi giorni, quella a Nick Frost.

Vi ricordiamo che The World's End sarà acquistabile in home video a partire da mercoledì.

D: Come vi sono venuti in mente i nomi dei pub? Esistono davvero?

R: Penso esistano davvero, ma naturalmente dovevano avere un senso strettamente collegato a quello che accade dentro di loro. Per cui quando abbiamo elaborato quello che avrebbe preso piede nei vari posti, abbiamo cucito loro addosso i nomi. The First Post è ovvio, The Old Familiar si chiama così perché è rimasto tale e quale. The Famous Cock si chiama così a causa di Gary. The Cross Hands è dove c’è il primo scontro. The Good Companion è dove loro fingono di essere amichevoli e di divertirsi insieme a loro. The Thrusty Seven è dove incontrano il reverendo green, poi c’è il Two Headed Dog, dove s’imbattono nelle gemelle. The Mermaid è dove le ragazze, le sirene, arrivano e tentano di renderli parte del network e il The Beehive è la sede centrale del tutto. Poi abbiamo il The King’s Head: fondamentalmente è la testa di Gary, in cui decide di portare a termine il pub crawl. Alla fine abbiamo il The World’s End che è la fine del mondo.

 

D: Quando hai fatto l’ultimo pub crawl?

R: Credo nel 2005, in Belgio. Si è trattato del mio “addio alle armi”, un’esperienza molto divertente. Mi ricordo che stavamo andando in giro a cercare un pub per gentleman e siamo finiti in un posto chiamato The Cock (vi ricordiamo che “cock” in inglese significa “gallo”, ma è anche un termine gergale per dire “ca**o”, ndr.). E’ stata l’ultima volta. Non bevo più da tre anni. Ho deciso che era ora di darci un taglio, ho passato i 40, sono padre. Non voglio bere più. Mi sento come liberato, più leggero.

 

D: Ti mancano quei giorni all’insegna della libertà?

R: No, e peraltro non credo che Gary King sia libero, al contrario: vive in una trappola. Si è preservato all’interno di questa strana curvatura spaziotemporale che lo ha mantenuto in questa fase infantile ed è questa la tragedia. Gary ha scattato una fotografia dell’ultima volta in cui è stato felice e ha tentato di attenersi ad essa. In realtà è molto depresso, al punto di aver tentato il suicidio. E’ questa la verità. Personalmente non ho alcuna nostalgia. Amo il luogo dove mi trovo adesso e sono felice di aver attraversato la burrasca e di essere arrivato dall’altra parte. Sono molto contento di essere un uomo di casa, un papà, un marito e un giardiniere saltuario.

 

D: Nei film che tu e Edgar Wright avete fatto si parla molto dei legami virili, si parla di emozioni in tutti e tre. Quant’è importante questo concetto?

R: E’ fondamentale, perché la commedia migliore è quella che nasce quando è collegata a qualcosa di serio. Quando fa da elemento di contrasto a qualcosa che è situato più in profondità. Con i film basati solo sulle battute c’è il problema che appena queste cominciano a non funzionare, il lavoro non funziona, tutto è in caduta libera. Non c’è niente cui aggrapparsi. Ma se ci sono dei personaggi e una storia cui il pubblico può affezionarsi, puoi permetterti di fare una pausa da esse perché avrai degli ingredienti che ti permettono di sviluppare il film in modo più serio. Il pubblico non ride più è viene colpito da quest’ondata di emotività. Per noi è sempre stato estremamente importante tirare fuori le nostre commedie da argomenti più seri. Il nocciolo di La Fine del Mondo è serissimo. C’è questa persona depressa, che ha tentato il suicidio ed è in fuga dal reparto psichiatrico. E’ di questo che si parla. Ovvio poi, si ride un sacco.

 

D: Che ci dici del processo creativo insieme a Edgar Wright?

R: Stiamo molto attenti in quello che facciamo. E’ un lavoro, duro, ma è divertente e ci piace un sacco farlo. Ce la spassiamo, ma allo stesso tempo lo prendiamo molto seriamente e siamo incredibilmente diligenti. Ormai siamo alla terza volta. La prima, con Shaun of the Dead, ha richiesto un sacco di tempo perché mentre stavamo lavorando alla storia cercavamo di ottenere il via alla produzione, quindi dovevamo seguire entrambi questi aspetti. La seconda, Hot Fuzz, è stata lunga più che altro per via della storia in sé. C’erano due storyline da sviluppare, quella “finta” e quella “reale”. Era lunghissima all’inizio, quindi abbiamo dovuto scremare parecchio. Forse La Fine del Mondo è stato il nostro parto più agevole. Ce ne siamo andati via un week end e alla fine avevamo già una prima infarinata di quello che volevamo. Avevamo già lo scheletro della trama. I concetti base, le svolte narrative. Alla fine del 2011 ci siamo messi a scrivere. Al tempo eravamo a Los Angeles, come anche all’inizio del 2012, quando io ero impegnato con Into Darkness – Star Trek. Ogni volta che non ero impegnato con J.J. andavo da Edgar a lavorare. Per l’estate era tutto finito.

 

D: Quando scrivi hai degli attori specifici in testa?

R: Si, al punto che quando a Los Angeles avevamo lo script anche se al tempo non li avevamo neanche nel cast utilizzavamo i loro nomi al posto di quelli dei personaggi. Abbiamo sempre voluto Eddie Marsan adempio perché lui interpreta sempre dei cattivi – in tutte le sue scene d’amore al cinema non si è mai trattato di sesso consensuale! Volevamo che interpretasse qualcuno di gentile e grazioso perché lui è davvero così. Un attore incredibile e un meraviglioso essere umano. Con Paddy Considine avevamo già lavorato e lo adoriamo perché è straordinario. Martin Freeman ha una quantità gargantuesca di talento e bravura e volevamo flirtare con l’idea del riuscire ad assemblare questo cast grandioso. Un sogno divenuto realtà. 

 

D: E’ Gary il villain della pellicola o è il Network?

R: Penso siano due. Uno è Gary, uno è questa benigna forza di cambiamento. Il Network vuole trasformare la Terra in un posto migliore, pacifico, come hanno già fatto negli altri pianeti. Ma tutto questo ha un costo: la nostra libertà. Gary dice “Non provate a cambiarci, perché noi abbiamo il diritto di provare a farlo da soli”. Per cui se una forza che lavora per il nostro bene, non può essere intesa in senso positivo se, in ogni caso, finisce per soggiogarci. 

 

D: Quanta differenza c’è nel lavorare a un grosso blockbuster come Star Trek e a un più piccolo film britannico?

R: In realtà è molto simile, perché quando sei nel bel mezzo del processo di filmmaking l’occhio del ciclone è praticamente lo stesso. A prescindere dalle dimensioni del progetto. Il set è più grande, ma a conti fatti hai sempre: un regista, una crew, le macchine da presa, un direttore della fotografia… Il catering è migliore coi film più grandi, quello si. In America il catering è sensazionale e poi è divertente giocare con gli oggetti di scena. Come in Star Trek. J.J. è sempre molto propenso all’impiego di prop fisiche. In Mission: Impossibile è lo stesso. Ma è bello tornare a lavorare con i tuoi vecchi amici. E’ come tornare a casa e infilarti una T-shirt. 

 

D: Quando hai cominciato a lavorare, immaginavi che saresti arrivato così lontano?

R: No, dico davvero. Non ho mai guardato così avanti. Ai primi tempi, quando ero uno stand-up comedian pensavo “Mi piacerebbe essere in una sit-com” e quando alla fine ho davvero preso parte a una sit-com non è che mi sono messo a dire “Ecco, adesso vorrei interpretare dei film”. Sono sempre focalizzato su quello che faccio al momento, non so cosa accadrà poi. Lo faccio solo nel senso in cui sono a conoscenza che devo fare un altro Star Trek e un altro Tintin. Ma qui comincia e qui finisce. Se avrò fortuna potrò fare quello che amo fare: lavorare e sentirmi felice per quello che faccio. E’ tutto quello che posso sperare in quanto attore. Il successo è meno importante della felicità e io voglio essere felice.

 

D: Ti senti uno stereotipo a Hollywood? Racchiuso nella figura dell’underdog?

R: Reciti in base alle tue forze e in quanto attore inglese diretto a Hollywood, non sono Tom Cruise e neanche Brad Pitt. Sono un ragazzo britannico alquanto credibile nei panni del nerd underdog per cui sono finito a interpretare Benji in Mission: Impossible e Scotty in Star Trek perché è qualcosa che mi riesce abbastanza bene. Se tutto va bene, non lo farò per sempre. Ma se questo significa avere la possibilità di far parte di questi film sontuosi, ben venga.

 

D: E di base sono personaggi divertenti e apprezzabili…

R: Film come Mission: Impossibile – Protocollo Fantasma e Into Darkness – Star Trek sono legati a doppia mandata con la tensione che, talvolta, hai la necessità di stemperare il tutto. Dai degli elementi da commedia al pubblico che, così, può dissetarsi un momento. Sono così tesi che il conforto comico è necessario. 

 

D: Cosa hai in serbo per il futuro?

R: Ho appena terminato un film intitolato Hector and the Search for Happiness (2014), che abbiamo girato a Vancouver, Londra e Sud Africa, ma anche in Cina e Tibet. E’ una produzione tedesca che non vedo l’ora di vedere dato che sono molto orgoglioso di essa. Ora sto girando un thriller in Australia intitolato Kill Me Three Times e quest’anno girerò una commedia rimastica in Inghilterra.