Martin McDonagh, dopo il successo di In Bruges e 7 psicopatici, ritorna dietro la macchina da presa con Tre Manifesti a Ebbing, Missouri (qui la nostra recensione).

Il progetto con protagonista Frances McDormand racconta le vicende di Mildred Hayes, una donna che decide di comprare tre spazi pubblicitari esistenti in una cittadina di provincia per denunciare il fatto che dopo molti mesi il caso dell’omicidio di sua figlia non ha ancora trovato i possibili colpevoli, accusando in modo esplicito il capo della polizia locale, William Willoughby, parte affidata a Woody Harrelson. La situazione inizia a prendere una svolta sempre più negativa quando vengono coinvolti gli altri poliziotti locali, tra cui il razzista e violento agente Dixon, e i mezzi di comunicazione.

Il filmmaker, acclamato alla Mostra del Cinema di Venezia dove è stato premiato con un meritato premio per la Migliore Sceneggiatura, ci ha raccontato qualche dettaglio sulla genesi del progetto e sulla sua carriera.

Sei stato deluso dal modo in cui è stato proposto al pubblico il film 7 psicopatici?
No, ma lo sono stato per quanto riguarda aver potuto imparare dagli errori compiuti con il film: non sono felice del risultato come lo sono stato con In Bruges o questo film. Alle volte devi aspettare per un po’ per capire quali sono stati i difetti di un progetto e rivedere i film uno dopo l’altro prima di girare Tre Manifesti a Ebbing, Missouri mi ha aiutato a comprendere che in occasione di In Bruges avevo fatto un buon lavoro con il personaggio di Colin Farrell e con la tristezza della storia, elemento che sosteneva la narrazione e dava spazio a un’ulteriore dimensione della trama. Non era solo divertente o fatto di battute e umorismo: c’era spazio nelle espressione e negli sguardi per mostrare la malinconia che faceva parte del protagonista, elemento che non c’era invece in 7 psicopatici. Ho quindi deciso che avrei dato spazio nella sceneggiatura non solo a questa grande rabbia: ci sono due momenti in cui Mildred è da sola ed emerge tutto il suo dolore e da dove nascono queste dinamiche folle, quello che si nasconde sotto la superficie. Ho inoltre deciso di lasciare andare la telecamera e non inserire dialoghi per dare spazio ai sentimenti.

Come è nato il progetto?
Volevo scrivere un personaggio principale femminile molto forte perché i miei film precedenti avevano degli uomini piuttosto dominanti. In realtà erano presenti delle donne determinate ma al centro della storia c’erano sempre uomini e volevo quindi rimediare a questa situazione. Ho avuto questa idea dei cartelloni pubblicitari per trasmettere un messaggio di rabbia e di dolore, dopo aver visto qualcosa di simile durante un viaggio negli Stati Uniti, chiedendomi le motivazioni per questa scelta e soprattutto chi avrebbe potuto farlo. Ho poi deciso che ci sarebbe stata una madre al centro della vicenda e questa scelta mi ha portato a far sviluppare la storia con grande facilità, poi ho creato la situazione con cui si sarebbe confrontata e i personaggi come il poliziotto malato e quello razzista.

Come hai lavorato sui dialoghi?
Amo i dialoghi, è qualcosa che mi viene naturale scrivere! Quando scrivo è come ricopiare delle conversazioni che stanno avvenendo, come se ci fossero due persone che parlano nella mia mente. Alle volte è un aspetto positivo perché devi mantenere il ritmo con cui lo fanno ma devi anche conoscere molto bene i tuoi personaggi e le loro idiosincrasie e oscurità, speranze, sogni. Non penso molto ai dialoghi perché mi viene naturale grazie alla mia esperienza a teatro, è qualcosa che mi piace davvero moltissimo e credo che non dovrebbero essere pensati per raccontare la storia o farla procedere ma per dare gioia anche in momenti di oscurità.

Hai scritto i personaggi pensando già ai possibili attori?
Le parti affidate a Frances e Sam le ho pensate con loro in mente, specialmente lei perché non avrei immaginato altre attrici in grado di interpretare quel ruolo: è una grande attrice, è una forza con cui devi fare i conti ma ha anche un grande senso dell’umorismo, senza mai esagerare o cercare di farti ridere per forza, rendendo quindi la situazione ancora più divertente. Frances, inoltre, proviene da un mondo di lavoratori di ceto medio e volevo che il personaggio avesse quel tipo di background.

Avete cambiato qualcosa del personaggio lavorando insieme, rispetto a come era stato delineato nella sceneggiatura?
No perché ci affidiamo molto a quello che c’è nello script, abbiamo solo tagliato qualche passaggio, non aggiunto nulla, rimanendo piuttosto fedeli alla versione originale. Mi piace però provare, dare spazio agli attori perché sono loro che il pubblico vede. Se un interprete avesse un problema con una battuta o con il modo con cui deve pronunciarla lo ascolterei, ovviamente, tuttavia amo lavorare quasi sempre con le stesse persone, come fosse una piccola compagnia teatrale, e quindi sanno già quello che devono fare, come avvicinarsi allo script.

Come avete trovato l’equilibrio tra gli aspetti drammatici e quelli divertenti?
Durante le prove leggiamo tutto il copione, poi parliamo individualmente delle scene e si tratta più che altro di discutere delle situazioni e delle emozioni. Non fornisco indicazioni precise, non accade mai. Si può sempre dare degli indizi sul fatto che sarà una scena particolarmente ricca di rabbia o di leggerezza. Gli attori, comunque, non hanno bisogno di moltissimi dettagli e indicazioni perché abbiamo già lavorato molto prima di arrivare sul set ed è accaduto così con Frances, Woody e Sam.

Volevi parlare in modo specifico dell’America contemporanea con questo film?
Non sono sicuro, anche se desideravo che l’atmosfera fosse particolarmente americana. Non voglio esprimere un giudizio preciso perché non so se il pubblico dovrà capire da solo se si tratta invece di un approccio europeo alle questioni, anche se spero sia qualcosa di più. Sono un grande fan dei film americani degli anni ’70 e volevo che seguisse un po’ quello stile. Uno dei miei film preferiti è ad esempio Paris, Texas di Wim Wenders che ritengo sia un meraviglioso film americano.

Come avete lavorato sulla colonna sonora composta da Carter Burwell, elemento che aggiunge delle sonorità quasi da western al film?
Carter aveva già lavorato ai miei due film precedenti e gli ho chiesto di occuparsi anche di questo progetto. Gli ho mandato il film quando stavo per finirlo ed è stata una sua idea l’atmosfera. Abbiamo inizialmente organizzato una proiezione a New York ed è sempre un po’ spaventoso quando incontri un compositore e senti per la prima volta la musica, o la possibile musica, perché inizi a pensare “Cosa faccio se non mi piace? Come lo dico? È uno degli artisti più grandiosi di sempre, come potrei dire qualcosa?”. Per fortuna mi ha fatto sentire un brano ed era il tema di Mildred, con un’atmosfera molto da spaghetti western e mi ha detto: “So che potresti pensare sia un’idea folle, ma sto pensando un po’ a Sergio Leone“. Era invece perfetta anche se non l’avrei nemmeno potuto pensare prima che la condividesse con me, nemmeno per un secondo, e invece funziona alla perfezione! Frances aveva questa idea di ispirarsi a John Wayne per il suo personaggio, per la sua camminata, e per il suo atteggiamento perché lui aveva avuto questi ruoli iconici in cui una persona arriva in città e colpisce in un certo senso le istituzioni. E Carter ha notato il lavoro compiuto da lei, permettendo di esprimere le sue emozioni in musica in quel modo. E’ grandioso perché lui riesce sempre a fare l’opposto di quello che avresti potuto immaginare alla vigilia. È un film pieno di umorismo e invece la musica propone un’atmosfera molto cupa. Il risultato finale è davvero perfetto.

Hai sentito, rispetto al passato, una maggiore pressione da parte dello studio a causa del gran numero di star presenti nel cast?
In realtà no perché già In Bruges aveva ancora molti aspetti del modello tradizionale degli studios. Ho pensato che con questo film volevo avere una certa atmosfera quindi ho proposto il progetto così come desideravo realizzare, chiedendo però di non effettuare alcuna modifica. Sono stato fortunato perché lo hanno accettato senza discutere o senza chiedere dei compromessi, dicendo di sì. Il budget è lo stesso, o persino un po’ inferiore, rispetto ai progetti precedenti.

L’ottima accoglienza riservata al film alla Mostra del Cinema di Venezia potrebbe dare il via a una corsa verso gli Oscar, come stai affrontando questa situazione?
Si desidera sempre che le persone vedano il tuo film e lo apprezzino, e sembra, in base ai giudizi ricevuti negli ultimi giorni, che ci stiamo muovendo verso quella direzione. Essere distribuiti nelle sale in questo periodo dell’anno significa inoltre che si potrebbe puntare proprio alla stagione dei premi, soprattutto per quanto riguarda Frances e Sam ed è qualcosa di grandioso perché amo la loro performance. Tecnicamente è un film indipendente ma le reazioni ottenute qui a Venezia fanno presupporre un’ottima accoglienza in sala. Tre manifesti a Ebbing Missouri non è mai stato ideato come un blockbuster e ho finito la lavorazione a gennaio, arrivare dopo così tanti mesi nei cinema mi sembra una collocazione ideale.

Il film affronta questioni sociali e politiche, molto presenti anche nei titoli presentati a Venezia, il ruolo del cinema è ancora essenziale per puntare l’attenzione sui problemi contemporanei?
Ai festival potrebbe sembrare che la maggior parte dei film si stiano muovendo in una certa direzione, poi invece i titoli che arrivano nelle sale, pensiamo ai blockbuster o ai progetti estivi, non affrontano affatto quelle tematiche. Quando l’ho scritto e girato non stavo cercando di commentare la situazione politica anche se, ovviamente, la si sfiora. Speravo di fare qualcosa di più universale e senza tempo, ovvero proporre la storia di una madre che sta cercando di ottenere giustizia. Non si tratta però, ad esempio, di un commento alla presidenza Trump perché l’abbiamo girato prima che venisse eletto.

Stai già pensando al tuo prossimo progetto, avendo terminato Tre Manifesti a Ebbing, Missouri a gennaio?
Non giro molti film ma dentro di me penso di averne ancora quattro o cinque da realizzare. Uno l’ho già scritto e altri due penso di scriverli nei prossimi mesi per poter scegliere quale sarà il progetto a cui mi dedicherò perché voglio che non sia di livello inferiore rispetto a questo o In Bruges. Solo che poi faccio i conti: considerando che giro un film ogni quattro anni e prima o poi morirò… comunque se questo avrà successo penso che trascorrerà meno tempo prima che arrivi nelle sale un mio nuovo film.
Da gennaio a ora, invece, mi sono semplicemente rilassato perché è bello sapere di aver qualcosa di finito e ho lavorato a uno spettacolo teatrale.

Quanto c’è di vero nella rappresentazione della piccola comunità al centro degli eventi?
Ho inventato tutto quello che riguarda la vita quotidiana nella cittadina di Ebbing. Non ho fatto delle ricerche. Ho viaggiato molto in America, ho ascoltato le persone parlare, ho osservato quello che mi circonda… Non volevo però nemmeno che ci fosse qualche elemento che sembrasse poco veritiero.

Nel film Peter Dinklage ha il ruolo con maggiore umanità e sensibilità a Ebbing, è stato ideato pensando proprio a lui?
La parte è stata scritta pensando a una persona di bassa statura perché ho sempre voluto lavorare con Peter e avevamo quasi collaborato insieme in occasione di In Bruges perché l’avevo incontrato prima di quel film grazie a uno spettacolo teatrale che era in scena a New York. Avevo amato la sua interpretazione sul palco ed è semplicemente un attore davvero grandioso! Speravo davvero di avere l’opportunità di lavorare con lui ed è un vero peccato che non ci sia più spazio per il suo personaggio nel film.

E per quanto riguarda Abbie Cornish?
Le voglio davvero bene e sono certo che un po’ alla volta diventerà protagonista di un mio film, passando da piccoli ruoli a sempre più importanti.

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