La proposta è stata ribattezza “autarchica” ma di autarchico ha davvero poco.

Si tratta di una riforma ipotizzata dell’art.44 del Testo Unico della Televisione (quindi non ancora approvata ma in via di definizione) finalizzata a rendere le televisioni ancora più partecipi della produzione nazionale di cinema e serie tv. Attualmente i canali sono già obbligati a reinvestire parte dei propri introiti, nonché a trasmettere una certa quota di prodotto italiano, ma non ci sono vere e proprie sanzioni e questi obblighi non sono sempre rispettati.
La riforma proposta aumenta la quota di cinema e serie tv italiane che i canali televisivi sono tenuti a trasmettere, aumenta la percentuale di fatturato annuale da investire in produzione e infine inasprisce e promette di mettere in vigore delle multe per chi non rispetti le regole. Di quanto è in fase di contrattazione, il ministro Franceschini sta tenendo duro nel braccio di ferro con i canali.

Infatti mentre Cartoon Italia e i 100 autori si sono già espressi fortemente a favore di questi cambiamenti, i canali televisivi non sono assolutamente contenti e parlano per l’appunto di autarchia, di dirigismo e di una terribile decisione che lede i loro profitti, li vincola nella programmazione e penalizza i loro palinsesti.
Si parla di passare dal 10% al 15% del proprio fatturato annuo da reinvestire in produzione di cinema europeo ed italiano (quota che solo per la Rai passa dal 15% al 20%) e di destinare una prima serata a settimana al cinema italiano su ogni canale (che per la Rai sono due prime serate). Per il mancato rispetto le multe arrivano anche a 50 milioni di euro con una soglia di tolleranza dello 0,3%.

In attesa di capire come andrà a finire e quale sarà il testo definitivo, la proposta Franceschini che trae apertamente ispirazione dai modelli francesi (ben più radicali negli obblighi di programmazione di prodotto nazionale ovunque, anche in campo musicale) sembra incrementare ciò che già esiste marginalmente e promettere severità contro chi non rispetti le regole (cosa che dovrebbe essere sempre assicurata).
È difficile pronunciarsi davvero contro una simile proposta, se le quote dovessero rimanere queste. Sembra infatti che un obbligo di programmazione accompagnato da uno di investimento siano il minimo per un canale televisivo (che ad ora vede nel cinema italiano del veleno, ma può anche trasformarlo in oro avendo cura di promuovere, selezionare e curare il prodotto) e soprattutto se tutti hanno i medesimi obblighi (tranne la Rai che ne ha di più pesanti per ovvie ragioni), nessuno è realmente svantaggiato.

Si dirà che lo streaming (Netflix e Amazon Video) è esente da queste regole, che è vero, ma quello del rispetto delle regole nazionali da parte degli operatori sovranazionali è un problema più grosso, non limitato certo al solo cinema e che non è in contrasto con queste norme. In buona sostanza non possono essere regolamentati alla stessa maniera per la loro natura, il che non significa che non possano essere regolamentati in assoluto.
In più questo provvedimento arriva assieme alla nuova legge cinema (i cui decreti attuativi non sono ancora stati emessi nella loro interezza) e sembra coerente che la nuova regolamentazione faccia attenzione non solo ai fondi, alle modalità di assegnazione e alle ripartizioni ma anche a che fine fanno tutti quei film promossi, che curi insomma il prodotto dall’inizio alla fine.

C’è però un’altra cosa da dire. A fronte degli obblighi imposti ai canali, che paiono corretti e proporzionati, è anche indubbio che l’atteggiamento assistenzialista nei confronti del cinema italiano ha dei precedenti, non ha prodotto una gran bella industria e in generale sembra fomentare quello che è il peggior difetto della produzione nazionale. Abituata a confrontarsi solo ad intermittenza con il mercato vero e proprio, salda nella propria abituale tendenza a farsi finanziare dallo stato, quindi dipendendo solo relativamente dagli incassi in sala, la produzione cinematografica italiana è arrivata allo stato in cui è, quello in cui i film prodotti non rispecchiano più il pubblico nuovo, inseguono quello più anziano per pigrizia e possono permettersi il lusso di andare largamente in perdita senza nemmeno vantare traguardi artistici. Non obbligati ad inseguire il botteghino i film italiani non lo intercettano proprio o lo fanno solo nei casi peggiori e con i film più sguaiati e non con i compromessi tra qualità e popolarità.
Certo, la nuova legge cinema sembra avere l’intenzione di porre fine a questo (lo sblocco di finanziamenti è soggetto ai risultati al botteghino e artistici dei film precedenti), ma è vero che garantire dei posti in prima fila nel mezzo di comunicazione più importante senza esserseli meritati non è propriamente il massimo.

Il cinema italiano non ha fatto davvero niente per meritare il posizionamento televisivo in prima serata. Non ha prodotto dei blockbuster, non ha prodotto una varietà di film che possano consentire a canali diversi di comprare film differenti per il proprio pubblico (cosa metterà in prima serata Italia Uno? I film degli anni ‘80 di Jerry Calà come sempre), non ha prodotto nemmeno dei crowd pleaser o qualunque tipo di film possa vantare l’ampio consenso di cui un mezzo gigante come la televisione ha bisogno in prima serata. Confinato in una produzione da terza, quarta serata (quando parliamo di film venuti bene), il cinema italiano ha pochissime frecce commerciali al proprio arco e i canali invece sono molti.
Se lo merita questo provvedimento? No. Non se lo merita. Gli farà bene? Farà bene all’industria nel complesso e quindi si spera faccia bene ad una produzione più sveglia, varia e capace di sopravvivere anche da sola nell’ecosistema mediatico.

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