Non tutti i mali vengono per nuocere: questo avremmo detto a Ziad Doueiri se il regista libanese avesse avuto familiarità con i proverbi nostrani. Da uno spiacevole episodio autobiografico, avvenuto durante un periodo umanamente difficile, è infatti nato L’Insulto, scritto assieme all’ex moglie Joëlle Touma, dramma giudiziario largamente apprezzato all’ultimo Festival di Venezia, tanto da esser dato da molti come favorito nella corsa al Leone d’Oro. Al centro della storia, il diverbio tra il cristiano libanese Toni, interpretato da Adel Karam [qui la nostra intervista esclusiva], e il profugo palestinese Yasser, interpretato da Kamel El Basha [qui la nostra intervista esclusiva]. Il Leone non è arrivato, ma è in compenso arrivata la Coppa Volpi per El Basha, primo attore arabo a vincere l’ambito premio al Lido; è arrivato, poi, il successo al botteghino in Libano, l’interesse da parte di numerosi festival internazionali e l’elezione a candidato della nazione nella corsa agli Oscar.

Incontriamo Doueiri a pochi giorni dal debutto di L’Insulto nelle sale italiane; ne nasce un’intervista esclusiva da cui emerge tutta la passione, umana prima ancora che artistica, di chi non ha paura di cantare fuori dal coro, talvolta a rischio della propria stessa sicurezza. Benché tenga a sottolineare come L’Insulto non sia stato, per lui, un “esercizio terapeutico”, il regista – già assistente operatore di Tarantino per Le IenePulp FictionJackie Brown – non nasconde la matrice autobiografica del dramma che ha messo in scena. “Tutto è nato da un’esperienza personale, da una lite che ho avuto con un operaio: una parola sbagliata, un insulto, ma tutto si è chiuso lì,” racconta Doueiri. “Mi sono chiesto se potesse essere la base per una sceneggiatura, e ho iniziato a ragionarci: un’idea tira l’altra, e ho capito quasi subito che avrebbe dovuto essere un dramma giudiziario. Mia moglie Joëlle e io eravamo, all’epoca, senza lavoro e piuttosto poveri, dovevamo crescere una bambina. Io avevo da poco rinunciato a girare The Attack [il film precedente di Doueiri, girato in Israele], progetto che poi ho fortunatamente ripreso in mano; nel periodo più brutto della mia vita, ho iniziato a scrivere qualcosa sul background di questi due personaggi, Toni e Yasser. È stato un viaggio autobiografico, in un certo senso: benché io non sia né l’uno ne l’altro, ho vissuto le esperienze psicologiche di entrambi i protagonisti.”

Sei un libanese che ha studiato cinema in America e che lavora molto in Francia: un mix che si riflette nel tuo modo di fare cinema: L’Insulto è un film libanese che potrebbe essere stato scritto e girato da un cineasta americano.

La mia formazione e il mio metodo di lavoro sono americani, perché ho studiato e ho vissuto buona parte della mia vita lì e anche perché trovo che mi si addica il modo di lavorare americano. Ciò non significa che sia il migliore né l’unico metodo, ma è quello in cui mi rionosco. Cerco sempre di applicare a ogni film che faccio la mia esperienza americana, sia che io stia girando in Israele, in Palestina o in Francia. Sto facendo la seconda stagione di una serie intitolata Baron Noir, con Kad Merad e Niels Arestrup, ed è una serie così strettamente legata alla politica francese che tu non saresti in grado di capirla, ora come ora: io ci ho messo tre mesi per comprendere di cosa si parlasse, eppure la sceneggiatura mi è subito piaciuta. Benché sia un prodotto francese fino al midollo, l’ho girata esattamente come avrei girato un film americano, perché quella è la mia impostazione. Ho sempre cercato di fondere assieme queste culture, perché non penso di appartenere solamente al Libano, o agli Stati Uniti, o alla Francia. A volte, è uno svantaggio, perché alla gente piace incasellarti, e nel mio caso non è possibile. Inoltre, vivo in Medio Oriente, un’area piena di problemi; puoi scegliere di fuggire o di rimanere. Io ho scelto di restare. Non è una questione intellettuale, è semplicemente parte del mio passato. Quando mi reco negli Stati Uniti, adotto uno stile di vita americano, ma questo non cancella la mia storia: saranno sempre realtà interconnesse. Adesso vivo in Francia, e continua a esserci questa connessione; anche se venissi a vivere in Italia, continuerebbe a persistere. La mia vita è frutto di una varietà di esperienze, che mi portano a scegliere le storie che voglio raccontare. Non si tratta del Libano, della Palestina, della politica… Si tratta, piuttosto, della mia percezione personale.

Insulto

Parlando di politica, L’Insulto è stato un successo straordinario, ma ha anche acceso la miccia di una discussione politica, e non solo in Libano. Durante la lavorazione, avevi il sentore delle polemiche che il tuo film avrebbe generato?

Sinceramente, non mi ero posto il problema. Sapevo che il film avrebbe potuto creare discussioni, ma non potevo immaginare fin dove sarebbero arrivate. Certo, molti amici mi avevano detto: “Ziad, non distribuiranno mai questo film, stai dicendo che i palestinesi hanno fatto un sacco di casini.” In Libano, i palestinesi sono sacri. Non puoi accusarli, sono al di sopra di tutto. La loro causa è intoccabile. È come se tu, per esempio, facessi un film in cui dichiari che gli ebrei hanno commesso un massacro contro altri ebrei ad Auschwitz. Direbbero che sei impazzita. Quando ho dato la sceneggiatura al produttore del film, Antoun Sehnaoui, ricordo che mi disse: “Credo che questo materiale sia grandioso e credo che farà molto discutere.” Gli chiesi cosa intendesse, e mi rispose: “Sai, sono temi molto sensibili.” E io feci: “Non lo so. Forse hai ragione, o forse la gente non ci farà caso.” Non pensavo a come la gente avrebbe reagito, pensavo solo a come realizzare il mio film, a dove trovare i miei attori, a come girarlo, a ottenere i permessi dal governo libanese, dovendo anche girare delle scene complesse con degli elicotteri… Insomma, mi preoccupavo solo del lato pratico, mentre lui, da produttore, si preoccupava della reazione della gente. Ciò non vuol dire che fossi totalmente all’oscuro di ciò a cui stavamo andando incontro. Sapevo che il film avrebbe potuto suscitare polemiche, ma dovevo finire di girarlo. Quella era la mia priorità. Avevo un budget limitato, 45 giorni per le riprese. Una volta finite le riprese, abbiamo mandato il film alla Commissione di Censura, e allora ho iniziato a preoccuparmi. Mi dicevo, “oh cazzo, vorranno tagliare questa scena, diranno che è un argomento troppo sensibile… forse tireranno fuori il mio passato…”, perché sono stato in Israele per girare The Attack. Ero molto preoccupato. C’è stata una negoziazione durata ben tre mesi tra noi e il governo. Hanno visto e rivisto il film. Volevano che le autorità non rischiassero di finire nell’occhio del ciclone, ed è per questo che mi imposero di mettere il disclaimer che compare all’inizio, in cui si precisa che il film non riflette le opinioni del governo libanese.

Il film ha causato svariati problemi in altri paesi del Medio Oriente. A Ramallah, in Palestina, è stata vietata la sua proiezione a un Festival.

In Giordania, la settimana scorsa, la censura ha visto il film. Ci hanno chiesto di togliere la scena in cui c’è l’uomo giordano in sedia a rotelle, una scena di ben sei minuti e mezzo, perché toccava corde troppo sensibili. Io mi sono rifiutato. Il Kuwait, il Qatar, il Bahrein, l’Arabia Saudita, Dubai e Abu Dhabi hanno comprato il film. Avevamo un distributore in questi paesi; la scorsa settimana, ci hanno telefonato per dirci che non potevano fare uscire il film, dicendo che toccava argomenti “troppo spinosi”. Dicono tutti così, non ti danno mai dettagli precisi. Dicevano che non era il momento giusto, a causa della faccenda Hariri [premier libanese che ha da poco dato le dimissioni, a breve ritirate]. Ho l’impressione che gli arabi continuino a darsi la zappa sui piedi. Si stanno comportando in modo stupido, ed è un peccato, perché il mio film parla di riconciliazione. Non istiga al conflitto, non attacca le dittature, non attacca l’Islam o il Corano. Purtroppo, penso che il mondo arabo stia attraversando il suo momento peggiore da millecinquecento anni a questa parte. E le cose rischiano di peggiorare.

L’Insulto riflette molto sugli eventi che hanno forgiato la storia recente del Libano; potremmo quasi definirla una riflessione sul passato e sul presente del paese.

In realtà, ammetto di non basarmi sugli accadimenti politici per decidere quali storie raccontare. Detto questo, non posso negare che ci siano eventi del passato che abbiano avuto un’importanza fondamentale nella mia vita, e che quindi si rifletteranno sempre nelle mie opere. I miei genitori erano militanti appassionati, hanno supportato la causa palestinese molto prima della guerra. Quando è avvenuto il massacro di Damour, di cui si parla nel film, io avevo solo tredici anni. Non si tratta della storia con la S maiuscola, ma di come l’ho vissuta io in prima persona. In  quest’ottica, ho usato il passato in funzione del presente. Ho riscritto molte scene dopo che il mio film precedente, The Attack, è stato boicottato dal movimento BDS [campagna globale a guida palestinese per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele]. Ero triste e deluso dal fatto che le associazioni pro-palestinesi di estrema sinistra, in Libano, avessero attaccato il mio film, quindi in un certo senso L’Insulto è la mia risposta a questi stronzi. Si è trattato di un attacco molto personale, da parte di gente che non sapeva nulla né di me, né di quanto la mia famiglia avesse lottato in favore della Palestina. L’Insulto è stato il mio modo di replicare alla loro dichiarazione di guerra, che sta andando avanti ancora oggi.

Insulto

La tua risposta è stata un legal drama in cui, però, le parti coinvolte sono entrambe vittime e colpevoli al tempo stesso.

Può capitare di essere spaventati da questo genere oggigiorno, perché non lo si vede più tanto spesso quanto negli anni ’80 e ’90. Parlando con Joëlle Touma in fase di scrittura, ricordo come lei suggerisse di tagliare qualche scena in corte, ma io ho insistito, restando saldo sulle mie posizioni. Mia madre, essendo avvocato, mi ha aiutato da vicino nella scrittura delle scene in tribunale. Tra l’altro, lei è molto vicina alla causa palestinese, più di quanto non lo sia mai stato io. È davvero passionale nel suo supporto, sarebbe disposta a immolarsi. Una pazza! Comunque, la maggior parte delle discussioni tra me e Joëlle vertevano sulla colpevolezza o meno di Yasser, il personaggio palestinese. Abbiamo preso la decisione finale dopo aver riflettuto a lungo sui nostri personaggi. Ci ha aiutati il fatto di provenire da due schieramenti opposti: lei viene da una famiglia cristiana di destra, io da una famiglia di origine musulmana di sinistra; ci siamo scambiati le parti, e io ho preso a gestire la prospettiva dell’avvocato dell’accusa, a favore di Toni, e lei quella dell’avvocato della difesa, a favore di Yasser. Avrei voluto inserire nel film il sistema americano di giuria popolare, preferivo che la decisione finale venisse presa dalla gente comune e non da un singolo giudice; ho provato in ogni modo a convincere mia madre a fare un’eccezione, ma lei – dal suo punto di vista professionale – mi ha giustamente messo in guardia: “Puoi pure farlo, ma non saresti credibile, perché in Libano non c’è questo sistema.” Mi disse però che, nel diritto libanese, esisteva la possibilità di un collegio giudicante, composto non da uno ma da tre giudici. È quello che infatti si vede nel film.

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