Kim Ki-duk è stato un pezzo gigantesco di cultura cinematografica di inizio anni 2000. A prescindere dalla fama di cui gode oggi, a prescindere dalla quantità di film che rimangono noti e hanno saputo incidere nell’industria del cinema e nelle vite delle persone. E lo è stato specialmente in Italia dove i suoi film per qualche anno hanno goduto di un successo sproporzionato rispetto a quello di cui gode il cinema d’autore straniero, figuriamoci asiatico!

Scoperto da Cannes ed esploso a Venezia con Ferro 3, Kim Ki-duk è stato assieme a Park Chan-wook uno dei principali piedi di porco con i quali il cinema coreano ha iniziato a penetrare l’occidente. Eppure, con il senno di poi, non ci poteva essere niente di più distante dei suoi film da quello che sarebbe poi stato il cinema coreano che abbiamo conosciuto. Era unico e all’epoca non lo sapevamo.

kim ki duk ferro 3

Per mostrare il bianco devo anche mostrare il nero” è la frase che meglio riassume la maniera in cui concepiva i film. Specialmente nella prima parte della sua carriera. Faceva un cinema capace di unire una violenza efferata e terribile ad un’idea di poesia svincolata dalla retorica. Lavorando di contrasti e con immagini pazzesche (due amanti che insieme sulla bilancia danno peso zero, un uomo che trascina un peso su una collina ripreso in tutta la sua fatica) riusciva nell’impresa impossibile di non essere kitsch né banale nell’affermare concetti alle volte basilari ma sempre universali. Film come L’isola o Bad Guy erano dei veri pugni nello stomaco a tratti difficili da sostenere (specialmente L’isola) che però sapevano mostrare anche una leggerezza indescrivibile.

kim ki duk l'isola

Nato nella provincia montanara coreana ma formatosi per 3 anni in Francia prima di tornare in Corea ed esordire subito con un film amatissimo (in patria), cioè Crocodile, da quel momento è stato prolifico come in occidente non è proprio possibile. Girava un film l’anno e qualche volta due, le sue erano produzioni svelte ma concepite in modi personali. Prima di Ferro 3 è stato Primavera estate autunno inverno… e ancora primavera (di cui era anche protagonista) ad annunciarlo, ma poi quel film del 2004 è stata come un’esplosione: nessuno ha potuto far finta di niente. E cosa ancora più clamorosa ha saputo intercettare il desiderio di sentimenti devastanti adolescenziale e post-adolescenziale passando dal suo opposto, da uno stile chiaro, semplice e sobrio.

kim ki duk primavera estate autunno inverno e ancora primavera

Nel 2004 di colpo divenne evidente che in quella parte del mondo (l’Asia) non c’erano solo Giappone e Cina a produrre un cinema stimolante ma anche un nuovo paese in forte ripresa economica, che per qualche anno agli occhi internazionali è stato capitanato da questi film molto violenti eppure sensibilissimi, con protagonisti di poche parole e molte azioni, le cui vite subivano sconvolgimenti astratti. Quando con Ferro 3 vinse il Leone d’Argento per la miglior regia sul palco del festival di Venezia mostrò il palmo della mano con disegnato un occhio, una citazione di quel che avviene nel film. Pochi come lui vivevano e mettevano nel film ciò in cui credevano.

kim ki duk ferro 3

Ha avuto riconoscimenti in tutti i principali festival europei lungo tutti gli anni 2000, corteggiato e regolarmente invitato ovunque ha vinto solo nel 2014 a Venezia (dov’era esploso e di casa) con Pietà, non il suo miglior film e quando ormai era tardi. Lo stesso fu un riconoscimento dovuto. Era arrivato completamente diverso, dopo aver subito un trauma e aver rivisto completamente il suo stile di vita. Era diventato noto con un cappello da baseball sempre in testa e vestiti alla moda, ma da quel momento si è vestito in modi più tradizionali, con ciabatte da monaco e capelli raccolti sopra la testa. Un’attrice era quasi morta su un suo set, aveva avuto una crisi grande e si era ritirato sui monti con una videocamera e un computer per montare. Da quell’esperienza uscì Arirang, uno degli auto-documentari più sinceri, spietati e commoventi in assoluto, un vero documento su cosa sia la fragilità umana. Un film che tutti dovrebbero vedere con un finale finto e metaforico con il quale è impossibile non relazionarsi. Vinse il massimo premio della sezione Un certain regard di Cannes.

kim ki duk arirang

Kim Ki-duk durante un momento devastante di Arirang

Di filmmaker che muoiono ce ne sono molti, la maggior parte in età avanzata, spesso usciti dalla fase propulsiva della propria carriera. Kim Ki-duk in un certo senso anche era fuori da quel periodo (Human, Space, Time and Human era terribile) ma era anche il tipo di cineasta capace di ricominciare, tornare a stupire, rimettersi in piedi e reinventarsi di continuo. Effettivamente l’impressione è che Kim Ki-duk potesse ancora dare. È stato uno dei filmmaker più influenti, decisivi e dolci di quell’ondata asiatica che investì i festival tra gli anni ‘90 e il nuovo secolo. Dopo Wong Kar-wai e Christopher Doyle l’unico a creare immagini che raccontassero un’idea di sentimentalismo diversa, nuova, molto immersa nella propria cultura (l’ha dove quella di Wong Kar-wai era urbana e universale) di una leggerezza quasi impalpabile.

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