Julia Ducournau sul senso di Titane: “I film sono esperienze, la struttura in tre atti non mi interessa”

Il cinema Troisi può dire di essere partito con una delle Palme d’Oro più importanti dei nostri anni. L’arrivo in Italia di Julia Ducournau per l’uscita italiana di Titane (bravi I Wonder ad esserselo aggiudicato), è stata l’occasione per inaugurare la sala Troisi, il nuovo cinema nel centro di Roma, a pochissimi passi dal Nuovo Sacher di Nanni Moretti, che segna il passaggio dell’associazione Piccolo America dalle proiezioni estive all’attività tutto l’anno. Dopo l’occupazione dello storico cinema America, la creazione di un’associazione, le proiezioni estive nelle arene romane con registi, presidenti del consiglio e ospiti di varia natura, adesso i Ragazzi del cinema America (questa proprio la definizione dell’associazione) hanno una sala. È tutto nuovo, ristrutturato e adibito a centro culturale, c’è il cinema ovviamente ma anche il bar ampio e una sala studio e biblioteca aperta h24. Come annunciato due anni fa fa è solo l’inizio, l’obiettivo è il multiplex diffuso.

Non sarà facile far funzionare una sala con una programmazione di qualità e commerciale (si comincia con Titane ma poi anche con No Time To Die, entrambi in lingua originale e in una minoranza di spettacoli doppiati in italiano), ma il Piccolo America ha dimostrato negli anni una capacità fuori dal normale di aggregazione intorno al cinema.

Il primo impatto fa pensare che il modello scelto per creare pubblico e fidelizzazione sia quello degli Apple Store di Steve Jobs, non certo per il design, ma per il senso di comunità. Al lavoro ci sono solo ragazzi e tutti con la stessa divisa (prima era la maglietta bordeaux, diventata negli anni un simbol d’appartenenza a certi valori non solo culturali ma, per esempio anche antifascisti, ora per la sala Troisi una più sobria tenuta nera sempre con logo riconoscibile), che come noto fa capo a Valerio Carocci, animatore dell’associazione motore politico e curatore artistico, vero artefice della crescita dell’associazione. Nessuno l’ha mai detto e nemmeno suggerito, tuttavia l’impressione è quella del clan che si riconosce in certi valori e li declina nella attività culturali. Un clan che, come tutti i clan, vuole quanti più adepti possibile e per farlo punta sulla consapevolezza chiara di ciò per cui è a favore e ciò contro cui si batte.

Sul tetto del palazzo, nella terrazza dell’aula studio, ci sono Vincent Lindon e Julia Ducournau, con la quale abbiamo potuto parlare in una piccola roundtable con altri giornalisti.

Titane è centrato su un’ossessione che il cinema conosce bene, quella del rapporto tra carne e metallo. Per Cronenberg il metallo è una strana forma di estensione della carne, per Verhoeven dà alla testa e Tsukamoto ha il terrore dell’incontro tra la materia morbida e quella dura. A lei cosa affascina di questo contrasto?

“Originariamente mi disturba. Titane viene da un incubo ricorrente che ho avuto per anni in cui facevo nascere parti di un motore. Era davvero spaventoso e ogni volta che mi svegliavo pensavo: “Mio Dio quest’immagine è così disturbante ma non so perché”. A furia di pensarci ho realizzato che a mettermi i brividi era la collisione tra il massimo dell’atto vitale, cioè la nascita, e poi il massimo del freddo e morto, cioè il metallo. Subito è stata un’idea base per la sceneggiatura di Titane, una delle tante, solo dirigendo il film invece ho avuto voglia di ritrarre il metallo come se fosse vivo, o almeno più vivo dei personaggi, fatti di carne e quindi vivi ma morti dentro.
Sta tutto nell’immagine iniziale, quel viaggio dentro al motore fino alla ruota che gira. Era per me il viaggio attraverso il corpo interiore del mio personaggio, il motore è l’intestino, quel tubo molto lungo è la spina dorsale e la ruota che gira è il cervello. Ci ho anche messo dell’olio per rendere tutto più organico e meno morto. Per la protagonista, che è morta dentro, il metallo supplisce ad una parte di lei e quindi alla sua umanità, solo che poi lungo il film diventa altro. Il metallo proprio si trasforma lungo la storia, partiamo con quella parte nella testa che la rende morta e finiamo invece con un metallo che è vivo perché si muove”.

Tutto questo è contemporaneamente lontano e vicino da Raw, suo film precedente ed esordio nel lungo, li vede collegati in qualche maniera?

“Ho cominciato a riflettere su Titane mentre lavoravo alla post di Raw, mi capita spesso di riflettere in quel momento lì, quindi sì sono collegati. Mi era venuto da considerare bene quale fosse alla fine la storia di Raw, prima l’emancipazione di una ragazza e poi la presa di coscienza della propria mostruosità. Mi piaceva il rapporto che lei ha con Adrien, il fatto che si fossero davvero scelti per una relazione che aveva un risvolto sessuale, mi sono detta che era strano aver messo da parte il sottointreccio senza averlo approfondito e mi sono resa conto che è difficile per me parlare di amore, lo vedo come qualcosa in divenire, non uno stato fermo. Così mi sono lanciata nella sfida di provare a parlare di amore nel senso dell’accettazione totale di sé e dell’altro”.

Questo nasce con i lungometraggi o è presente fin dai corti?

“Considera che nei miei film molti personaggi hanno lo stesso cognome, e questo anche nei corti”

La protagonista di Titane è molto più spigolosa e difficile rispetto a quella di Raw, come del resto è il personaggio di Vincent Lindon. Li hai scritti appositamente così respingenti (almeno inizialmente)?

“Il lavoro sul corpo del personaggio è un lavoro sul corpo dello spettatore, sulle sensazioni che può provare. In Titane ho provato a vedere se ci sono altri modi di potersi identificare con un personaggio che non si ama. Il corpo in questo film serve per farci rimanere vicino al personaggio principale che non prova emozioni, che uccide e che è in preda ad una pulsione di morte. Il difficile quindi è riuscirci senza rendere astratto il personaggio, altrimenti lo spettatore dopo 10 minuti se ne va. Il mio obiettivo era fare in modo che lo spettatore sentisse ciò che sente il personaggio, ragion per cui metto molta enfasi sull’aspetto organico, al punto che lo spettatore ha paura per il proprio corpo perché si identifica. Sono tecniche che fanno sì che pure se non ami il protagonista vieni messo al suo posto. Quando poi, partiti da dove siamo partiti, cominci lentamente a testimoniare una trasformazione verso l’umanità ne rimani colpito penso.
I film per me sono esperienze, per questo la struttura in tre atti classica non mi interessa. Il viaggio è verso la conquista dell’umanità”.

Fonte delle fotografie e credit dei fotografi: Cinema Troisi Facebook

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