Dopo la vittoria del Leone D’Oro nel 2015 con Ti Guardo, il regista Lorenzo Vigas torna con il lungometraggio La Caja in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia e, in occasione di una roundtable con la stampa, ha regalato qualche retroscena riguardante la realizzazione del film e i suoi progetti futuri, questa volta orientati verso la comprensione del mondo femminile dopo una trilogia sul tema della paternità.

L’opera in corsa per i premi assegnati dalla giuria di Venezia 78 racconta la storia di Hatzin (Hatzín Navarrete), un ragazzino che viaggia per recuperare i resti del padre, rimasto vittima della guerra tra il governo federale e i narcotrafficanti. Il protagonista, tuttavia, si imbatte in Mario (Hernán Mendoza) e si convince che sia il padre creduto morto.

Come è stato lavorare con Hatzín Navarrete, al suo esordio come attore e alle prese con un ruolo molto intenso dal punto di vista emotivo? Ero in una situazione davvero difficile, e non sapevo cosa sarebbe successo: forse non l’avrebbe accettato, forse sarebbe rimasto ferito. Ho colto l’occasione. L’unica cosa che ho detto è che dovevamo dargli amore, 24 ore al giorno. Doveva sentirlo, quindi gli ho voluto bene durante tutte le riprese in modo tale che si sentisse al sicuro e amato. La reazione che ha avuto è stata di sorpresa e, per fortuna, girare l’ha, in un certo senso, liberato. All’inizio del film era un’altra persona, ed è fantastico il modo in cui è cambiato. Nessuno avrebbe potuto credere che Hatzín, che sorrideva e ballava alla fine del lavoro, all’inizio sul set non parlasse con nessuno. Fare il film, confrontare la propria storia con quella della finzione, lo ha portato a vivere una specie di catarsi e ora sono un po’ come suo padre. Mi chiama ogni due giorni nella vita reale. Ho la tendenza a sviluppare questo tipo di rapporto con i miei giovani attori come accaduto con il protagonista di Ti guardo: ora sono come suo padre, lui vive a Chicago e sono diventato una figura paterna, gli mando soldi, ci vogliamo bene… Con Hatzín l’importante è stato dargli amore, ma era un rischio per il film, avrebbe potuto modificare il suo approccio alla recitazione.

Il fatto che il suo personaggio abbia lo stesso nome è stato un caso? Inizialmente il personaggio si chiamava Arturo, ma quando io e il resto della troupe abbiamo incontrato Hatzín abbiamo iniziato a scoprire questo ragazzino. Durante la prima settimana delle riprese abbiamo usato sempre il nome Arturo, poi nella seconda abbiamo deciso di cambiarlo in Hatzín.

Che tipo di caratteristiche ha cercato durante il processo del casting per il giovane protagonista? Non ero alla ricerca di un attore, ho cercato nelle scuole, ho visionato duecento ragazzini per la parte. Ero alla ricerca di qualcuno che avesse bisogno di amore, che potesse raccontare tutto attraverso gli occhi. Per questo motivo puntavo la telecamera e dicevo ‘Raccontami una storia solo con i tuoi occhi, senza aprire bocca’. Quando l’ho fatto con Hatzín Navarrete, mi ha raccontato tutta la sua vita solo guardandomi e ho detto subito ‘Questo è il ragazzo giusto!’.

Il personaggio deve infatti comunicare la sua dimensione interiore, non solo quanto gli sta accadendo… Il film è un po’ come L’esorcista: Linda Blair non sapeva cosa sarebbe stato il film ed è stato un po’ così. Hatzín stava scoprendo il film giorno dopo giorno: non sapeva tutta la storia. Penso non sia una buona idea dare lo script intero agli attori non professionisti perché rischierebbero di provare a recitare troppo, avendo delle aspettative riguardanti quello che dovrebbero fare. Ma è importante dare la sceneggiatura agli attori bravi, lui scopriva qualcosa di nuovo ogni giorno e capiva cosa sarebbe accaduto nel film. Ha visto il film solo ieri e non sapeva di cosa parlava.

Era importante anche la sua origine etnica e il suo aspetto fisico per dare spazio alla diversità? Hatzín significa ‘aquila che sta cacciando’, ha un significato particolare. Sì, era importante dare spazio ai tanti aspetti che caratterizzano la popolazione messicana. Mario è, ad esempio, completamente diverso perché nel nord del paese gli abitanti possono essere anche molto diversi: alti, biondi, con gli occhi azzurri. Non vediamo mai la madre di Hatzín, quindi probabilmente è indigena. Il contrasto fisico tra i due personaggi era particolarmente interessante.

Le storie dei tuoi film hanno sempre un impatto emotivo importante. Si tratta di un elemento importante nel tuo approccio alla regia? Per me il film è composto da molte scatole: una è dedicata a Hatzín, una a Hatzín e Mario, una alla ragazza scomparsa… Si vedono tutte queste cose e alla fine del film tutte le scatole devono aprirsi nello stesso momento, in modo da capire l’intero film. Si tratta di un pensiero molto in stile Bresson ed è quello che provo a fare, non è facile: accade nel montaggio. Quando giri provi a farlo nel miglior modo possibile, ma è impossibile perché puoi solo immaginare quale sarà il risultato finale. La magia accade durante il montaggio.

Il film affronta il tema della paternità e mostra un rapporto molto complicato. Si è ispirato al legame con suo padre? No, affatto. Avevo un rapporto fantastico con mio padre, eravamo molto vicini. Era un pittore molto importante in Venezuela e siamo sempre stati molto legati. Quando ero un teenager, tuttavia, avevo il bisogno di diventare qualcuno perché lui era così importante e questo mi ha causato molta pressione e tensione. Forse per questo motivo ho il bisogno di girare film sulla paternità, ma mio padre mi ha trattato davvero molto bene, è morto cinque anni fa ed è stato davvero duro affrontare la sua morte, è stata la mia prima influenza. I suoi dipinti hanno avuto un impatto sui miei primi progetti, ma la sua morte non credo abbia avuto delle ripercussioni su questo film perché è stato scritto cinque anni prima che lo perdessi.

Il film riflette in un certo modo anche la situazione sociale in Messico? Si tratta di una nazione che sta cercando di trovare la propria identità, è ancora ‘giovane’ rispetto ad altre realtà come l’Europa e gli Stati Uniti. Il Messico sta cercando di capire la direzione che sta prendendo, come accade a Hatzín che sta cercando la sua identità e quella del corpo che gli è stato consegnato. Penso che se il film funziona è perché c’è qualcosa che unisce tutte queste ‘scatole’, ovvero il tema dell’identità. Per me il finale è all’insegna dell’ottimismo: prende una decisione, e l’individuo può decidere dopo aver affrontato tutto, persino delle decisioni difficili e terribili. Di solito sono molto pessimista nei miei film e questo, invece, è particolarmente ottimista.

Come è stata l’esperienza di girare in luoghi dove molti abitanti affrontano realmente quanto mostrato nel film? Si tratta di una realtà orribile di cui stavo leggendo mentre scrivevo la sceneggiatura. Ho letto le storie delle maquiladoras messicane, di come delle persone sono scappate e hanno avvisato la polizia che ha poi trovato tantissime persone che erano rimaste imprigionate per 20 anni per lavorare gratis e non avevano il permesso di uscire, come degli schiavi. Ho pensato che dovevo girare un film su questa situazione. All’inizio pensavo che avrei mostrato queste persone che non potevano uscire e la ragazza sarebbe fuggita e poi si sarebbe suicidata. Poi mi sono reso conto che non tutte le maquiladora sono così: ce ne sono alcune che hanno delle condizioni davvero buone per i lavoratori. Quello che mostro nel film si posiziona quindi a metà tra queste due situazioni, ma è vero che ci sono delle condizioni di lavoro davvero dure e le persone vengono sfruttate per molte ore.

Crede che sia importante attingere al passato per parlare di come potrebbe essere il futuro? Credo che sia molto importante capire da dove veniamo per scoprire dove stiamo andando. La ricerca di Hatzín è in parte proprio così: cerca di capire le proprie origini per comprendere dove sta andando. Il personaggio rappresenta in parte un po’ tutto il continente sudamericano, di cui è una metafora. Spesso si preferisce dimenticare il passato, cercare di andare negli Stati Uniti, ma bisogna sapere da dove si va avanti per andare avanti ed evolversi. Bisogna tenere in considerazione la comunità indigena che ha una conoscenza più profonda del passato della nazione.

Le riprese a Chihuahua sono state pericolose? Si tratta dell’area più pericolosa del Messico ed è controllata da molti gruppi di narcotrafficanti diversi. Visitare le città era davvero importante perché ognuna è controllata da un cartello diverso. Dovevamo andare lì e parlare del film in modo che sapessero che non era contro di loro o una minaccia per la loro attività, in modo da ottenere i permessi di girare. Non abbiamo avuto nessun problema, ma grazie al fatto che siamo riusciti a mantenere una buona comunicazione.

la caja poster

Che tipo di rapporto ha con l’attività da produttore? La preferisce a quella da regista? Sono un produttore davvero pessimo! Aiuto, e l’ho fatto in ogni modo possibile anche in occasione di Sundown di Michel Franco, ma sono un produttore davvero poco bravo.

Come mai trascorrono così tanti anni tra la realizzazione dei suoi film? Ogni regista ha le sue tempistiche, il suo ritmo. Io e Michel Franco siamo molto vicini, ci aiutiamo a vicenda, ci rispettiamo e ci vogliamo bene. Siamo davvero diversi e per questo abbiamo dei tempi diversi. Lui riesce a realizzare i progetti più velocemente.

Dopo la fine di questa trilogia, sta già lavorando a un nuovo progetto? Ora voglio lavorare con le donne e parlare di loro, cercare di capire le donne che sono dentro di me, e mia madre, mia moglie, e il mistero delle donne che è fantastico. Questo è il mio progetto: fare film sulle donne. Ho delle idee, ma per ora solo quelle. Sarà un film statunitense e sulla femminilità, su come sono le donne contemporanee.

Concludere questi tre film le ha insegnato qualcosa? Non penso di aver imparato qualcosa. Ho realizzato i film, mi hanno regalato dei momenti grandiosi e, in un certo senso, anche tristezza. Non li ho realizzati per imparare, ma perché dovevo farlo e ora sono sollevato all’idea di aver concluso la trilogia.

Alle volte i film sono legati alle persone importanti nella nostra vita, quali sono le persone che l’hanno influenzata? Mio padre è tutto per me. Era una persona e un artista fantastico, lui è stato la mia prima ispirazione.

Dopo la vittoria del Leone d’oro, come è cambiata la sua carriera nel mondo del cinema? Mi ha causato molta pressione. Da un certo punto di vista è stato fantastico, meraviglioso, e dall’altro mi ha messo molta pressione. The Box è inoltre la conseguenza di questa pressione perché volevo fosse un progetto importante: l’ho girato in 35mm, ho deciso di trovare una vera maquiladora, una vera industria, dei veri operai perché volevo provare realmente a dimostrare che il premio non fosse stato un errore. Penso sia normale che accada così e sia stato una cosa positiva per questo film.

Come è tornare a Venezia dopo quel premio? Per me è un sogno essere tornato. Come filmmaker sono nato qui, sono in concorso nel festival più antico e, insieme a Cannes, tra i più rispettati. Molte migliaia di registi vorrebbero essere qui, già trovarmi qui è realmente un sogno e lo sto apprezzando. Sto godendomi queste giornate.

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