La nostra intervista ad Alain Parroni, l’esordiente da tenere d’occhio dopo il suo Una sterminata domenica al Festival di Venezia.

Premio Speciale della giuria Orizzonti al Festival di Venezia 2023, Una sterminata domenica di Alain Parroni è uno studio visivo e linguistico sull’adolescenza di oggi, una storia di formazione violenta e disperata che vede come protagonisti tre ragazzi della provincia romana. Quello di Parroni è uno sguardo giovane ma estremamente maturo, lucido e complesso riguardo l’uso del mezzo cinematografico, di rara compattezza poetica. Ne abbiamo parlato con l’autore durante il Festival di Venezia.

Una sterminata domenica sarà al cinema dal 14 settembre, distribuito da Fandango.

Vorrei iniziare partendo dalle tue note di regia, dove parli dell’influenza della cultura visuale sui tuoi personaggi. Puoi spiegare meglio questo aspetto?

Diciamo che fare l’opera prima è un po’ questo, rendersi conto che qualcuno ti ha influenzato in qualche modo. Il discorso dell’influenza magari prima poteva essere una cosa quasi di ricerca, di ispirazione, magari i registi dieci anni fa si andavano a cercare quel libro di quell’autore che li ispirava o cercavano di cavalcare una corrente… In realtà noi siamo totalmente cresciuti in un caos di immagini costante, e quindi per me si trattava proprio di questo, capire da dove provenisse ognuna delle influenze che magari stavo mettendo in scrittura e capire come esplorarla più a fondo. Visivamente, volevo quasi come se il film venisse da dieci anni fa e, allo stesso tempo, volevo che fosse un film possibile anche tra dieci anni. Per me si trattava di cercare una sintesi da questo punto di vista.

Tipo quando usano i cellulari?

Sì. Ovviamente la produzione leggeva in sceneggiatura “manda il messaggio” e mi chiedeva “come facciamo la grafica?”. Io ho risposto che non volevo proprio nulla di grafico perché la grafica invecchia subito, c’è un aggiornamento, cambia subito tutto e così anche il film decade e invecchia subito. Quindi ho costruito piuttosto l’influenza dei cellulari su di loro giocando sulla luce, facendo sì che i cellulari diventassero un riflesso di luce su di loro. Lo stesso è valso per i suoni.

A me è sembrato un film più fisico che visivo  Questi adolescenti sentono proprio il bisogno di toccare, di fare cose, rubare, scrivere sui muri… l’ho trovata una conoscenza del mondo che passa molto attraverso il tatto, più che dal visivo. Viene da da un’idea precedente al film oppure ti è venuta mentre giravi?

Credo che provenga molto da quello che banalmente è il mio approccio al mondo. Io facendo foto questo faccio…

Perché, hai cominciato come fotografo?

Si, ho studiato fotografia al liceo e poi ho sempre scattato foto. Ma anche negli ultimi cinque anni in realtà ho vissuto facendo il fotografo di scena, quindi ho fatto un sacco di film vivendo il backstage. Facendo questo passi quindi dal costume al trucco e inizi a capire come funziona un set. Che poi, il set-up di quando scatti o giri è quello: metto la camera/macchina da presa in un modo, mi sposto, cerco di portare il soggetto verso di me e di esplorarlo in tutto e per tutto. In merito a questo, per Una sterminata domenica, è stato molto bravo il direttore della fotografia (Andrea Benjamin Manenti) perché mi ha proprio fatto un set-up della macchina da presa molto simile a quello di una macchina fotografica. Invece che mettere tutte le batterie e fare la mega macchina da presa il più delle volte mi dava un’Alexa senza le batterie, tipo con dei cavi che mettevo in cintura e veramente la usavo come una macchina fotografica. Quindi gli attori stessi li spostavo, me li tiravo addosso.

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Però fammi capire, come hai voluto leggere questi adolescenti? Perché da una parte c’è il punto di vista visivo, e quindi il discorso dell’influenza della cultura visuale, ma poi c’è anche quello specifico “stare nel mondo” molto più pratico e tattile. Li ho visti proprio divisi tra questi due aspetti.

Questo è stato proprio il mio conflitto principale. Mi sono reso conto a un certo punto, a vent’anni, che c’avevo due piani di realtà che vivevo contemporaneamente: quello digitale e visivo e poi invece quello tangibile, della campagna, della terra e delle cose. Il mio obiettivo era quindi era capire come questi due piani dialogassero. Nel corso dei cinque anni di preparazione del film ho fatto un sacco di interviste a dei ragazzi: per esempio quella che poi è diventata Brenda nel film, l’ho intervista quando aveva 14 anni ed era totalmente un’altra persona. Temevo di non saper raccontare quella realtà che in maniera arrogante volevo raccontare, non volevo andare là e diventare la “camera invisibile”: è una cosa che non poteva funzionare, perché c’era una realtà che mi stava sfuggendo, proprio quella di come lei si rappresentava sui social, visivamente. Ho cercato quindi di fare un connubio fra questi due aspetti del raccontarsi, non solo con lei ma ovviamente con tutti i ragazzi che intervistavo.

Come li hai trovati gli attori?

Ho fatto ricerca attraverso vari ragazzi che conoscevo. Partendo banalmente da cugini, amici di cugini e vari ragazzi di 14, 15, 18 anni, ho fatto una serie di interviste di mezz’ora dove gli facevo delle domande generiche e da cui magari traevo qualcosa, quello che dicevamo prima: un punto di vista, un atteggiamento, un certo rapporto con la religione, con le figure genitoriali… E poi magari dopo due anni andavo un’altra volta a intervistarli per capire se c’era qualcosa che era cambiato, come si rapportavano al futuro. Per esempio Federica (Federica Valentini) in sei anni è rimasta praticamente identica perché non ha avuto input o stimoli esterni. È tra l’altro l’unica che è stata presa dalle interviste. Avevo scritto i personaggi in maniera precisa, quindi in realtà è stato abbastanza faticoso non trovarli in nessuno, perché per me il trio doveva funzionare come un personaggio a sé, unico. Quindi magari trovavo un attore che funzionava da solo, però appena lo incrociavo con qualcun altro cadeva tutto. Enrico (Enrico Bassetti) era negli “scarti” di queste interviste. Lui aveva esperienze di teatro ma non aveva mai fatto nulla, così come Zak (Zackari Delmas) che aveva fatto qualche corto. Enrico mi ha convinto quando l’ho visto vicino a Federica. Sono stato invece settimane a cercare un Kevin , però con un carattere così esplosivo come quello del suo personaggio mi sono reso conto che nella generazione dei nati nella seconda metà degli anni ‘90 in giù, non c’era. I ragazzi di quell’età sono sì “bulletti” ma non fragili come Kevin, che invece ha un lato da ragazzina quasi, un modo di relazionarsi più interessante e in cui mi riconoscevo. E quindi ho cercato Kevin all’infinito e l’ultima persona che ho provato è stata Zak. È entrato dicendo che era di Torino, ho pensato che non avrebbe mai funzionato… Così al posto di fare un’intervista canonica abbiamo fatto una passeggiata tutti e quattro insieme con gli altri attori, ho visto come si comportava… ed era un naturale! Kevin rompeva le palle, faceva sgambetti, sputava… loro tre si muovevano e trovavano già delle loro gerarchie camminando, senza che sapessero niente del copione.

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A livello visivo, i luoghi e “l’essere nel mondo” sono essenziali in questo film. La cura del visivo è dettagliata, studiata, però rivela anche una certa “passione del momento”. Hai scelto prima i luoghi e poi hai pensato alle inquadrature, oppure avevi delle immagini in testa e hai scelto poi i luoghi che le rendessero visivamente?

Partiamo dalla premessa che uno prepara un film per cinque anni, lo studia e ci lavora da solo, poi arriva la produzione che, essendo un’opera prima, ti dà cinque settimane e cinque giorni. Tante cose venivano da quello che c’era nella giornata. Alex che cammina sul ponteggio, il riflesso sulla macchina.. Tante volte erano invece molto studiate rispetto agli ambienti. Quindi un mix delle due cose abbastanza studiato. Quello che ho fatto è stato aggiungere una figura che un po’ particolare, quella dell’art director, che in Italia non c’è. È una persona che ordina i reparti. Ho pensato che dopo un lavoro di cinque anni sarebbero arrivati degli sconosciuti, come uno scenografo, e avrei dovuto dargli tutto il mio materiale e non ce l’avrei mai fatta. Per questo avevo bisogno di un’altra persona. Flaminia Gentili, che è l’art director, faceva proprio questo: raccoglieva, metteva in ordine appunti, disegni, mille bozzetti, cose varie. Per esempio i ponteggi che vedi nel film in sceneggiatura dovevano essere un acquedotto abbandonato. Volevo che ci fosse un rudere antico che si relazionasse con la provincia, come se Roma vivesse in quelle strutture così antiche. Invece, non avendo trovato un rudere romano, abbiamo trovato la scenografia abbandonata di Ben Hur che sta a Pomezia e non ci girano più da quando hanno fatto il remake. Una cosa gigante, morta. E non so, sentivo che avesse un rapporto col film, che fosse un amare violento i film con cui sono cresciuto, fin quasi a vandalizzarli. Lo stesso discorso vale per i titoli di testa: all’inizio li avevamo fatti di un blu canonico, come magari potevano essere nei film di Fellini o Verdone. Ma poi ho detto “ma stracciamoli tutti” così li abbiamo stampati in pellicola e li abbiamo graffiati… per tornare al discorso che dici te sul tangibile. Ma anche il film stesso, io Io volevo stamparlo in pellicola.

Eh infatti ha anche uno strano formato, tondeggiante negli angoli.

Quello è perché abbiamo usato delle lenti della Super 16 degli anni ’60, però su una camera digitale. Mi dava un senso di presenza, come di un occhio che a volte li spia, a volte scompare, a volte è parte di loro. Sentivo che era la scelta giusta. Non potendo girare il film, ho realizzato infiniti modellini. Per spiegare pure alla troupe, banalmente, come e cosa dovevamo fare. Perché poi per fare un’opera prima ti danno veramente pochi soldi. Cioè con quelli ci giravo padre e figlio dentro casa che litigano e fine…

Guardando il film ho avuto l’impressione che fosse una produzione gigantesca… Per esempio, penso alla scena del tunnel dove Brenda partorisce. Oppure agli elicotteri. Sembra che abbiate fermato il raccordo anulare. Come hai fatto?

Là ho avuto il vantaggio che Giorgio Gucci, appunto il produttore più giovane di Alcor, si fidasse molto di me. È stato lui a fare da tramite tra Wim Wenders e Fandango. Giorgio aveva visto tante cose preparatorie che avevo realizzato. E quindi, visto che avevamo solo cinque giorni a settimana, il venerdì invece che caricare la macchina da presa sul camion faceva finta e poi dopo 10 metri la metteva nella mia macchina, così nel weekend andavo a girare altre cose per conto mio. La scena in spiaggia, i bagnanti che si girano quando il cane arriva, sono tutte scene girate ad agosto, prima di prendere un’altra macchina. Poi abbiamo girato Alex sulla torretta ad ottobre. Io sono andato a fare proprio della fotografia di strada. Anche Alex che corre con la moto, l’ho girato da solo. L’incidente è stato fatto con il set, lo stunt e tutto quanto, ma tutta la parte di lui che corre in moto in mezzo alla campagna no: ho usato mio fratello un weekend, che guida molto bene. Ma poi si fidavano tutti quindi non sanno cosa ho girato durante il set e cosa no. Non so neanche quanto sappiano. Perché poi il vantaggio di una produzione grande è che ti supporta però a volte totalmente ti ignora. Che è una cosa che ad alcuni fa soffrire. Io invece ci sono sguazzato. Ho detto: “perfetto, faccio come mi sento”.

Immagino che altri esordienti non abbiano la fortuna di avere un produttore così flessibile…

Ma totalmente. A livello produttivo si è creato un trittico equilibrato: Fandango metteva un supporto produttivo classico, Giorgio faceva da tramite, avendo invece le esigenze di gestire un’opera un po’ più fuori dalle righe, e Wenders che dava un ulteriore supporto.

Che ruolo ha avuto Wenders nello specifico? 

Wenders ha agito sulla scrittura, o meglio in quella fase lì, e si è messo a disposizione per due cose per cui è stato poi fondamentale. La prima è stata la costruzione del personaggio di Domenico che era un po’ più figura se vogliamo paterna. Io ho detto subito che non volevo figure genitoriali nel film, che all’inizio è stata una cosa che ha fatto impazzire i produttori… gli ho detto poi che quando  avrebbero visto il film finito non ci avrebbero nemmeno pensato a dove stessero mamma e papà – nei cartoni animati non lo pensiamo del resto. Nel mio film i ragazzi sono i protagonisti della loro avventura, cerchiamo di trattarli come se fossero mitologici. E questo per fortuna ha funzionato un sacco. Con Wenders abbiamo lavorato sulla figura di Domenico (il fattore) e il suo rapporto con Alex, su come scrivere un personaggio del genere, su un relazionarsi con una paterna che non fosse proprio paterna ma che fosse di staccata, straniante. Poi Wenders è stato fondamentale per trovare il compositore delle musiche. Io ho montato con le musiche di Neon Genesis Evangelion appoggiate, ma proprio un pezzettino perché dovevo fare una prova. La musica mi piaceva e così ho pensato di comprarla, ma poi mi sono detto: ma sentiamo direttamente il musicista, magari ci compone qualcosa! E tutti: “No, impossibile! Il musicista è in Giappone, come facciamo?”. Fatto sta che Wenders stava girando proprio in quei giorni in Giappone Perfect Days, il film che poi è stato a Cannes, e ha chiesto al produttore giapponese se conoscesse Shirō Sagisu (questo compositore) e tipo dopo un’ora ci ha mandato il numero di telefono. Io ho chiamato Shirō e lui è venuto a Roma dopo due giorni, ha visto il film, ha detto “Sì, lo voglio fare” e subito è entrato tantissimo nel film, ci ha dato un sacco di input. Ma poi in generale sono curioso di sapere che impatto avrà il film su altre culture, altre lingue. Il film l’ho scritto durante il Torino Film Lab, avevo fatto un corto di cui avevo un trattamento e lì a Torino – cinque anni fa –  ero l’unico italiano insieme allo sceneggiatore Giulio Pennacchi. Tutti gli altri erano più grandi e stranieri, e già lì cercavo di far capire la mia storia e sono spuntati tanti punti universali che io non avevo notato.

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Nel tuo film ho visto un po’ le opposizioni tipiche del cinema italiano romano-periferico e soprattutto dei film dei fratelli D’Innocenzo: mi riferisco per esempio a quella tra centro e periferia (quindi il tema della marginalità), o a quella tra religione e superstizione.

Io Fabio e Damiano li conosco dal primo film e con loro mi sono sempre confrontato anche se abbiamo delle visioni abbastanza diverse. Con loro ho fatto fotografo di scena e backstage da Favolacce, per America Latina ho fatto sia foto di scena che il location manager perché America Latina l’hanno girato nei posti in cui sono cresciuto. Insomma nei loro film ci sono un sacco di location che poi ho riusato nel mio. Ma anche sulla serie che adesso stanno facendo, Dostoevskij, ho lavorato alle location. Per quanto riguarda queste opposizioni, in maniera abbastanza differente, loro sono cresciuti sia in periferia che in provincia: sono stati a Tor Bella Monaca, a Tardea, in quelle parti di Nuova Florida (che è un quartiere che sta lì vicino), quindi loro hanno visto entrambe le cose. Io invece sono cresciuto proprio in provincia, e la provincia è totalmente diversa dalla periferia: la periferia la città la subisce quasi, è faticosa, è brutta, è disagevole. Invece in provincia diventa quasi piacevole quel distacco dalla città, la città diventa quasi un luna park. Per quanto riguarda il rapporto tra religione e superstizione. La nonna di Brenda nel film è mia nonna, avevo provato tantissime attrici che facevano magari anche più favore alla produzione perché erano dei volti più noti, però mia nonna si relaziona veramente con le cose in cui crede ed era quello che mi stimolava. La religione la vedevo – un po’ come le figure genitoriali che non ci sono – come l’educazione che ci danno, un’educazione che è presente a prescindere. Io essendo cresciuto in provincia ovviamente sono battezzato, ho fatto la comunione…

Quindi la religione come una costrizione?

Secondo me è più un fattore di educazione inconscia: i genitori o i nonni inconsciamente ti parlano costantemente di morte, fai questo, fai quello, “mangia tutto sennò vai all’inferno”. C’è questo rapporto costante con la morte. E lo sparare in piazza San Pietro, nel mio film, è quindi un po’ come mettere le mani addosso a un genitore che ti ha cresciuto, che pensa di amarti perché ti ha dato tutto “il normale”, ma che non si rende conto che ti ignora, che non ti sta dando input per crescere. E quindi a un certo punto magari gli metti le mani addosso proprio perché non hai strumenti intellettuali per aggredirlo.

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Anche proprio nell’arco narrativo di Alex, crescere equivale a morire, e l’adolescenza è quel momento in cui odi il futuro perché lo vedi proprio come una morte. Secondo te è quindi una questione generazionale?

Ma io la vedo più legata a un concetto quasi di memoria, nel senso che quello che penso è che c’è questa costante ansia di sentire, infatti forse la cosa fisica di cui parli, è quasi veramente un gesto per dire “non voglio essere dimenticato”. È gridare in faccia ai genitori la propria esistenza, è appunto fare tag, è rompere le statue, è spaccare una vetrina. Non si tratta di fare del vandalismo perché si vuole fare del male a una persona, ma è più un far sì che quella persona ti noti, non ti dimentichi. Ricordi quel giorno che ti hanno rotto la vetrina e quella persona fa parte della tua vita per sempre.

Ma quindi la memoria, secondo te, può essere digitale e delegata? Perché sento una certa ambiguità.

Ma assolutamente. Sono cresciuto in una generazione così ambigua, ma per me non è un conflitto, si tratta di fare convivere le due cose. Secondo me siamo una generazione determinata dai dispositivi e dai linguaggi che stiamo utilizzando, quindi andiamo a esplorare in quella direzione. Noi di 30 anni, perché dobbiamo continuare a fare film? Se è solo per raccontare una storia non serve, le storie possono essere raccontate con altri mille linguaggi: posso fare un podcast, posso fare una serie, posso fare un film per la tv… ho mille modi per raccontare una storia e basta. Se invece devo fare cinema deve avere un senso, e al momento questo senso per me è legato alla memoria e all’esperienza cinematografica.

Progetti per il futuro?

Diciamo che se questo film l’ho affrontato cercando di chiedermi quello che succedeva tra i diciotto e i vent’anni, dopo l’università quando non sapevo che fare, adesso quello che sto cercando di fare verso è comprendere quello che mi è successo tra i 20 e i 30 e come mi sono relazionato all’animazione e alla fotografia. Al liceo facevo fotografia e grafica pubblicitaria e di pomeriggio un corso di cinema d’animazione, però cinema d’animazione canonico, cioè quindi matita e fogli. Ma anche animazione sperimentale, quindi pellicola graffiata o cose così. Quindi diciamo formato un po’ dall’animazione, un po’ dalla fotografia, e ora sto cercando di scrivere due cose: una più legata al mezzo della fotografia e una all’animazione.

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